Jannik Sinner è fatto della stoffa di cui sono fatti i (nostri) sogni



L’elogio della (magnifica) normalità. Ecco cosa scriverebbe Erasmo da Rotterdam, se fosse dall’altra parte del mondo, nell’Australia di re Jannik.

La follia è stata dominata. Insieme al gotha della racchetta. E il ragazzo dai capelli rossi è già arrivato sull’Himalaya del tennis. Dove nessun italiano era mai arrivato. Una scalata insieme veloce e lenta. Veloce: perché in pochi anni ha tinto d’azzurro e d’arancione i nostri desideri e il cielo della Davis, quello di Melbourne e di tanti altri tornei. Ci ha dato giusto il tempo di scoprirlo, di conoscerlo e infine di amarlo. Incondizionatamente. Così, quando è arrivato in vetta, eravamo già tutti con lui. Un po’ suoi genitori, zii o nonni, un po’ suoi fratelli, suoi compagni di banco, di passione o d’avventura. 

Chi vince - come ci insegna Flaiano - è amico di tutti, da sempre. Ma lui ha fatto di più: anche quando ha perso, non ha lasciato indietro nessuno. Nemmeno i tifosi insaziabili, gli specialisti dei “però”, gli infaticabili cercatori di pagliuzze. È cresciuto. Ha caricato lo zaino di sassi d’esperienza. Senza montarsi la testa quando vinceva. Senza abbattersi quando perdeva. Senza cambiare abitudini o programmi. Anche se addosso gli piovevano milioni di proposte (persino quella d’essere il super ospite di Sanremo...) e milioni di euro. Ed è questa, la sua straordinaria lentezza. Ha conquistato con i colpi, ma anche con i sorrisi. Con la forza e la continuità, ma anche con il garbo. Non ha assecondato la velocità, le aspettative o la fretta di altri. Ha imposto - ai suoi avversari, ma anche a un po’ tutti noi - i suoi tempi (comunque incredibili), il suo passo sicuro. Tipico delle nostre montagne. Un piede dopo l’altro. Un colpo dopo l’altro. Facendoci scoprire o riscoprire - ed esportandola nel mondo - l’Italia migliore: vera, educata, semplice, naturale, sorridente. Genuina. Mai una parola fuori posto. Mai un gesto di stizza. Mai una parolaccia o un urlo. Saggezza e palline. Intelligenza e racchette. Buona creanza e sudore. Una consapevolezza che si fa aura, appunto normalissima magia, bolla che riluce appena sopra di noi. Per noi - che dai tempi di Panatta (Roland Garros 1976) aspettavamo un altro slam, un altro sogno avverato - in questi giorni è successo qualcosa di incredibile. Ha fatto alzare un Paese alle quattro e mezzo per strappare lo scettro al più forte del mondo (Djokovic) e ha cambiato la domenica di milioni di italiani per far incidere il suo nome sulla coppa degli Australian Open battendo Medvedev. Per lui è stata invece solo una partita di tennis: il suo lavoro. Duro, ma molto diverso da quello di tanti altri che all’alba - come ci ha ricordato più volte proprio Jannik - si alzano per andare a lavorare, con mille responsabilità, senza “giocare” e raramente potendo “vincere”. Un lavoro però contagioso, il suo. Fatto della stessa stoffa di cui sono fatti i sogni, direbbe Shakespeare. Ma questo, il ragazzo di Sesto Pusteria, lo sa bene. E non si fermerà certo qui. Ci porterà lontano. Sull’abbaino della fantasia.













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