la storia

Bolzano, 8 settembre 1943: il sergente che difese la Lancia e salvò 40 soldati dal lager

Luigi Di Vella impedì ai nazisti di entrare e poi - con uno stratagemma - portò via i compagni


di Luca Fregona


BOLZANO. Questa è una storia che pochissimo conoscono e che nessuno ha mai raccontato. Seppellita per oltre 70 anni nel buco nero che ha inghiottito il periodo dell’occupazione nazista. Rimasta chiusa in un cassetto, custodita con umiltà e pudore. E che ora - in un atto d’amore dei figli verso un padre che non c’è più - va detta.

L’8 settembre 1943, Luigi Di Vella, un sergente autiere, autista di camion, nato a Ruvo di Puglia, in provincia di Bari, è protagonista di uno dei rarissimi episodi di resistenza ai tedeschi nella nostra città: la difesa dello stabilimento Lancia.

Nel 1943 Luigi Di Vella ha 31 anni, una moglie e un figlio di pochi mesi. Non più giovane, ma neanche vecchio, è un uomo vigoroso ma stanco della guerra. È un veterano dell’Africa, dove è andato volontario nel 1930 ad appena 18 anni abbagliato dal fascismo. Dopo Libia, Cirenaica ed Etiopia, ha cercato di ricostruirsi una vita in Puglia con una piccola impresa di trasporti. Lo scoppio della Seconda guerra mondiale però azzera tutto. Nel 1940, il «sergente Di Vella Luigi» viene richiamato e comandato al IV° Reggimento autieri di Verona, in servizio al Corpo d’Armata di Bolzano. Arriva in città con la moglie Anita. Non ha l’obbligo di vivere in caserma. Affittano un appartamentino a Sant’Antonio, vicino al cotonificio. Una parvenza di vita normale sull’orlo dell’apocalisse.

Nell’aprile 1943 viene distaccato alla «Fabbrica Automobili Lancia» in via Razza (oggi via Volta) con un reparto di 40 autieri ai suoi ordini. Autisti dell’esercito in forza ad una fabbrica che produce mezzi per lo sforzo bellico. Non devono combattere. Devono collaudare i “Ro”, gli autocarri destinati al fronte, e aiutare gli operai nei reparti. Ma l’8 settembre 1943 tutto cambia.

Quello che è successo è scritto nero su bianco in un rapporto del 12 novembre 1949, firmato dal diretto superiore, il capitano Giacomo Zanghi: «La sera dell’8 settembre 1943, dopo il suo consueto servizio, mentre si trovava presso la propria famiglia, il sergente Di Vella apprendeva dal giornale radio delle ore 20 che era stato firmato l’armistizio. In vista degli avvenimenti che avrebbero potuto svilupparsi, accorse immediatamente nello stabilimento tra i suoi soldati tenendoli pronti con le armi in mano».

Quella sera tutto è confuso. In Alto Adige molti accolgono i tedeschi come liberatori. Ma tra gli italiani arrivati sotto il fascismo, è il panico. I soldati del Regio Esercito non sanno cosa fare. Chi scappa, chi raggiunge il proprio reparto, chi resta in attesa nascosto.

Luigi Di Vella no. Lui sa cosa fare. Agisce d’istinto. Bacia la moglie Anita, i l figlio Nicola, e corre alla Lancia. Piazza i suoi soldati al primo piano della fabbrica, dove c’erano i dormitori. «Due o tre per finestra - comanda -. Fucile in mano, colpo in canna». I suoi hanno paura. Gli chiedono cosa succederà, cosa faranno i tedeschi. «Che ne sarà di noi?».

Lui li calma. Telefona al comando. Gli dicono di non abbandonare e combattere. Sale al piano superiore. Passa di finestra in finestra. Guarda sulla strada. «Appena li vedete - dice -sparate». Devono difendere la fabbrica. A qualsiasi costo. È tra i pochi a rispettare un ordine mentre l’esercito italiano si sta squagliando come neve al sole.

Fuori dalle mura della Lancia, intanto, si scatena la caccia ai soldati italiani. La Wehrmacht - già presente in città - inizia subito i rastrellamenti, occupa le caserme di Bolzano, uccide chi si ribella, picchia chi si arrende.

Le notizie arrivano anche alla Lancia. In lontananza si sento raffiche di mitra, colpi di artiglieria. Di Vella sa che è solo questione di tempo. La Lancia produce camion e mezzi militari: è un obiettivo strategico per l’industria bellica del Reich. Verso le 22 i tedeschi occupano la Zona industriale. Passano sulla via Volta, sotto la fabbrica. Di Vella dà l’ordine. I suoi autieri aprono il fuoco sugli autocarri con la croce uncinata. Gli operai del turno notte vengono radunati nei rifugi anti-aerei, lontano dai colpi.

È una battaglia. I tedeschi rispondono. Circondano lo stabilimento. È Davide contro Golia. Quaranta autieri male armati. Metà veterani ormai in disarmo, metà “pivelli” al primo giorno di guerra vera. Di Vella urla di non mollare. «Sparate, cristo santo. Non fateli entrare!». Lui nel ’35 è stato in Etiopia a combattere contro il Negus. «E sono sempre tornato indietro vivo. Fate come vi dico e ci salveremo».

I suoi imprecano, affidano l’anima a dio e alla madonna, trattengono il fiato. Si alzano. Si affacciano, sparano e si nascondono. Uccidono per non essere uccisi. Ricaricano e sparano. Isolati da tutto, senza nessuno che possa venire a salvarli. Autisti che diventano soldati da prima linea in un istante. La battaglia dura tutta la notte. I tedeschi provano a entrare, ma i «quaranta» li rispediscono indietro.

Di Vella però ha capito che è finita. Che non ce la faranno mai. «Se ci prendono vivi, ci ammazzano», pensa. Conosce la fabbrica come le sue tasche. E ha un’idea. Va nei magazzini, prende 40 tute blu e le distribuisce. «Toglietevi la divisa e mettetevi queste».

All’alba un carro armato Tigre sfonda il cancello della portineria centrale, seguito da altri panzer e soldati a piedi. Di Vella ordina di lasciare le posizioni e mischiarsi agli altri operai ancora nascosti nei rifugi e nei depositi.

I tedeschi rastrellano la fabbrica, trovano le armi abbandonate sotto le finestre. Radunano tutti gli operai ma non si accorgono che tra loro ci sono anche i soldati italiani che fino a poco prima avevano combattuto. E nessuno tra le tute blu “vere” apre bocca. Gli operai vengono fatti uscire, e, come un cavallo di troia, proteggono nella loro “pancia” i 40 autieri. Li portano - salvi - fuori dalle mura, mentre i tedeschi sono ancora lì che li cercano.

Bolzano: "Io, l'ultimo sopravvissuto della strage degli operai del 3 maggio 1945" Bruno Bovo, 94 anni, è stato messo al muro della Lancia insieme agli altri operai rastrellati dai nazisti in Zona industriale. E' stato colpito da cinque proiettili. "Urlavano "Italiano kaputt" poi ci hanno sparato". Un silenzio durato 70 anni

«In tal modo - scrive il capitano Zanghi - i quaranta soldati poterono nei giorni seguenti raggiungere le proprie case, sfuggendo alla cattura e al conseguente internamento in Germania».

Un comportamento elogiato nel dopoguerra anche dalla Lancia: «Il sergente Di Vella ha dimostrato pronta decisione - si legge in una nota della direzione del 25 agosto 1949 -, quale era richiesta da una situazione di fatto estremamente delicata».

Tra i documenti conservati dai figli, anche una nota mandata nel dopoguerra al presidio militare di Verona dal generale Andrea della Croce, colonnello Capo di stato maggiore del Comando di Difesa Territoriale di Bolzano: «Durante il mio internamento in Polonia, nella la mia affannosa ricerca di dati che mi consentissero di ricostruire gli avvenimenti dell’8-9 settembre 1943, un subalterno mi raccontò di quanto aveva fatto Di Vella, che conoscevo bene e avevo messo io al comando degli autieri alla Lancia».

Un comportamento esemplare, sottolinea, «di fronte invece all’ignavia di molti».

Dopo l’8 settembre, Luigi Di Vella è costretto a nascondersi. I tedeschi sanno chi è, lo cercano per fargli pagare la resistenza alla Lancia.

Le SS piombano nella casa di Sant’Antonio e terrorizzano la moglie Anita. Un’altra volta stanno per prenderlo a Ponte Adige, riconosciuto da un zelante delatore della Sod .

Si salva per miracolo scappando nei campi.

Alla Lancia gli procurano un contratto di lavoro e documenti falsi, e così, alla macchia, aspetta la fine della guerra.

Dopo la liberazione, torna in servizio al Corpo d’Armata di Bolzano, prima come autista del comandante, poi in archivio.

È morto nel 2004, a 82 anni.

Faceva parte dell’Associazione nazionale autieri e non mancava mai ai raduni dei reduci, ma di quella notte dell’8 settembre parlava poco.

«Non gli dava importanza», raccontano oggi i figli Nicola e Michele. Diceva di aver fatto solo quello che doveva.

Ma i 40 che gli devono la vita non lo hanno mai dimenticato.

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