LA STORIA

Da Bengasi alla California il prigioniero “americano” 

La storia del bolzanino Luigi Girelli, 97 anni, sopravvissuto a un affondamento e alla guerra in Libia Catturato dagli inglesi, l’orrore nei campi francesi, l’internamento negli Stati Uniti


di Luca Fregona


BOLZANO. Dio gli ha messo "la mano sulla testa" per tre volte. In mezzo al mediterraneo, tra la sabbie del deserto, e tra le onde dell’Atlantico. Luigi Girelli, 97 anni, soldato per sei, prigioniero per tre, ferroviere per tutta la vita, è seduto nello studio della sua bella casa di via Crispi. Sul tavolo le foto di lui ragazzo, poi in divisa, poi al lavoro sui treni. «Prendete un bocia di neanche vent'anni - dice -, mettetegli addosso una divisa e scaraventatelo in guerra...». Girelli arriva in Alto Adige dal Veneto alla fine degli anni Trenta, assunto dalle ferrovie. Telegrafista a Fortezza. Il 14 marzo 1940 viene chiamato sotto le armi. «Ero un bambino...». Il Car lo fa a Torino. Primo genio telegrafisti. Il 10 giugno l'Italia entra in guerra. Girelli, 78 anni dopo, socchiude gli occhi. «Conte Rosso», sussurra.

AFFONDATO. 24 maggio 1941 il "Conte Rosso" parte da Napoli alle 4 del mattino. È un piroscafo riconvertito ad uso militare, porta le truppe italiane a Tripoli, Africa settentrionale. In guerra. Poco prima di mezzanotte è dieci miglia a largo di Siracusa. Un sottomarino inglese lo centra. Due colpi da cecchino. Due siluri. Un botto, il piroscafo ruggisce. S’impenna. S'inabissa di prua. Girelli è a bordo. «Non me ne sono neanche reso conto, ero in coperta. Mi sono trovato in mare. Non sapevo nuotare. Mi sono aggrappato alla prima cosa che ho visto». Una camera d’aria, la gomma di un camion. «Non so come ho fatto, ho infilato un braccio nel cerchione, poi mi sono tirato su. E lì, appeso, ho aspettato». I soccorsi arrivano via mare ma ore dopo. Intorno è l’inferno: urla, imprecazioni, preghiere. E i corpi dei tuoi amici che galleggiano. «Ho ricordi vaghi, ero in trance. Quando mi hanno tirato fuori dall’acqua era mattina. Hanno agganciato la gomma con una gru dalla nave di soccorso...». Una tragedia immensa: 1.330 morti. Ragazzi sacrificati da Mussolini. La maggior parte affondati con la nave, altri inghiottiti dal gorgo del transatlantico che scompare nel blu profondo. Altri ancora annegati in attesa di aiuto. «Della mia compagnia, la “Trasmettitori”, eravamo in 300 - dice Girelli - , ci siamo salvati in 35. Quasi tutti i miei compagni erano sottocoperta, non hanno fatto in tempo a uscire...». Morti come topi. «Quel giorno Dio mi ha messo la mano sulla testa e mi ha salvato». Girelli viene rimandato a Napoli, poi a Bologna. Il 7 giugno 1942 viene imbarcato a Lecce e spedito di nuovo in Libia. Bengasi.

LIBIA. «Dopo El Alamein le cose per noi si sono messe malissimo», racconta. L’autunno del ’42 è un incubo per i soldati italiani sul fronte libico, martellati da inglesi e americani. Girelli viene spedito sull'altipiano del Gebel, a est di Bengasi. Una guerra dura, di carro armati, sete, e sangue misto sabbia. Gli inglesi contrattaccano e li fanno a pezzi. In rotta sulle piste lungo la costa, la compagnia di Girelli si disperde. «Eravamo rimasti in quattro con un camion, poca acqua e niente da mangiare». Gli inglesi alle calcagna. «Ci hanno spinto fino al confine con la Tunisia. Lì ci hanno presi». Vengono catturati dopo un tentativo di fuga nel deserto. È la primavera del 1943. Gli inglesi li consegnano ai francesi, meno teneri con gli italiani. «Dalla Tunisia, i francesi ci hanno portati a Casablanca, in Marocco, in un campo di concentramento. Quello è stato il periodo più duro della guerra. Le guardie erano bestie. Durante il viaggio sui carri merci ogni occasione era buona per picchiarci. I militari di scorta stavano come coccodrilli nel fango». Nascosti, acquattati. «Pronti a saltarti addosso al minimo errore, al primo cedimento». Durante una sosta, uno dei compagni - sfinito - mette fuori la gamella per pietire un po’ d’acqua. La guardia gli balza addosso come un cobra. «E - BAAAM - una bastonata in faccia. Gli ha rotto il naso quel figlio di un cane...». Un colpo secco. Una violenza sproporzionata. «Ricordo il senso di umiliazione e anche di vendetta. Ero pronto a fargliela pagare.... Ci odiavano, i francesi. Nel campo ci facevano morire di fame». Al mattino un cucchiaio di polvere d’uovo diluita nell’avena. «A pranzo un filone di pane da dividere in cento. Ho perso 15 chili in pochi giorni». Alla fine della guerra saranno tremila i militari italiani morti nei campi francesi.

OCEANO. Dopo tre mesi a Casablanca, nel luglio del 1943, i prigionieri vengono consegnati all’esercito americano. Vengono imbarcati su navi destinazione New York. Luigi Girelli, infatti, è uno dei 51mila soldati italiani internati nei campi di concentramento degli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale. Le navi americane all’"andata" portano armi e soldati, al ritorno i prigionieri catturati in Nordafrica: 19 giorni di oceano Atlantico col terrore di essere colpiti dai sottomarini tedeschi. Un convoglio di 40 mercantili ad uso militare. Per tre volte il convoglio viene attaccato. Per tre volte Girelli riceve l’estrema unzione. «Quando suonava l’allarme, il comandante ci spediva nella stiva e chiudeva i boccaporti. Se la situazione si faceva brutta, mandava giù un sacerdote per assolverci dai peccati e darci la benedizione. Eravamo 1.500: sudati, impauriti, incollati l’uno all’altro. Ma non si muoveva una mosca. Sapevamo dei rischi, che il mare poteva essere la nostra tomba. Io so cosa significa trovarsi su una barca che in ogni momento può affondare...». Le navi procedono a zig zag per sfuggire agli U-boot ma a volte non basta. «Alcune, colpite, colarono a picco». Dio però gli mette - un'altra volta - "la mano sulla testa", e Luigi si salva ancora.

NEW YORK. «Lo ricordo come fosse ieri: siamo arrivati a New York di sera. Il comandante ci ha chiamati in coperta. Eravamo tutti sul pianale della nave. Era buio pesto, poi una piccola luce lontano. E i rintocchi di una campana. Ci siamo messi a piangere come bambini. Non so perché, ma in quel momento abbiamo capito di essere finalmente al sicuro. E che per noi, la guerra, era finita».

Sbarcati ai moli di Red Hook, il porto operaio della Grande mela, i prigionieri vengono spogliati, spidocchiati, lavati e rasati. «Ci hanno dato divise americane che sapevano di bucato. Erano due anni che non avevo dei vestiti puliti». E ancora: dentifricio, sapone, sigarette, crema da barba, coca cola, hamburger. «E la radio che mandava “Sing Sing Sing” di Benny Goodman. E anche un paio di scarpe nuove». Basta botte e fame. «E quella puzza di urina e sangue dei campi francesi». La compagnia di Girelli viene spedita a Florence, Arizona. Un viaggio di cinque giorni e sei notti su un carro merci attraverso l’America. Dai grattacieli alle praterie. «Eravamo larve: debilitati, magri, incapaci di stare in piedi. Quando siamo arrivati al campo, ho dovuto portare un compagno sulle spalle. Si stava lasciando morire per tutte le bastonate prese dai francesi». Per due mesi vengono lasciati in pace. Per riprendere peso e forze. «Ci davano da mangiare a sazietà. Pacchi di pasta, bistecche alte così. Cucinavano i nostri cuochi». Una prigionia soft. «Tanto, lì, dove volevi scappare? In Messico?». E poi, gli americani erano “umani”, simpatici, accoglienti. Rimessi in piedi, the italians vengono mandati nei campi a raccogliere cotone. Quando viene firmato l’armistizio, possono scegliere: restare fedeli al duce o diventare “prigionieri cooperativi degli alleati”. «Il 90 per cento di noi ha scelto di collaborare». PAISÀ. La sorveglianza si allenta ancora. Girelli e i suoi compagni vengono trasferiti a San Francisco, poi al campo Knight a Oakland. Sempre in California, sempre nella baia. «Potevamo uscire, lavorare nelle officine e nei magazzini. La paga era di 80 centesimi di dollaro al giorno. Non eravamo più ai lavori “forzati”». La comunità italo-americana di Frisco li “adotta”. «Venivano a trovarci il sabato e la domenica. Un mare di gente». Paisà, ti voglio bene. «Ci portavano dolci, biscotti fatti in casa, e le figlie da ... sposare. Ballavamo con le ragazze. Ci facevano sentire a casa». Girelli è sveglio. Parla l’inglese come l’italiano. Lo ha imparato durante la prigionia in Africa. «Me l’ha insegnato un sacerdote che - dio sa come - aveva un libro di grammatica». Sapere l’inglese gli apre un'autostrada, anzi una highway. «Quelle lezioni, arrivato in America mi hanno tirato fuori dai guai mille volte e... salvato un piede».

Girelli che è pratico di motori, viene assunto in un’officina. Ripara ascensori e macchine industriali. Un giorno però quasi ci lascia la pelle. «Stavo riparando uno di quei “lift”, quei sollevatori a staffe che vengono usati nei depositi. È successo che mentre stavo lì, in mezzo alle staffe, si è spezzata una fune». La staffa piomba a terra. Una frustata che gli maciulla il piede destro. «Prima me lo gessano fino all’inguine, ma il piede non guarisce. Decidono allora di amputare. Ero disperato. Pensavo al ritorno in Italia, al lavoro che avrei perso. Non volevo essere un invalido a vent’anni. Per fortuna il buon dio...». Gli mette - per la terza volta - una mano sulla testa. Il giorno prima dell’operazione passa in corsia una donna. È un medico, maggiore dell'esercito Usa. È il chirurgo. Amputare? «Just a moment», dice lei. Il giorno dopo lo tiene sotto i ferri per sei ore, gli ricostruisce il piede senza “segare”. «Se oggi a 97 anni cammino ancora sulle mie gambe, lo devo a quella donna».

CASA. L’Europa intanto si libera del cancro nazi-fascista. Hitler si sucida nel bunker, Mussolini viene appeso testa in giù a piazzale Loreto. La guerra è finita. All'inizio del 1946 tocca ai prigionieri italiani in America tornare a casa. Un altro lunghissimo viaggio in nave, ma senza l’ansia degli U-boot. «Abbiamo fatto un pezzo di Pacifico, poi il Canale di Panama, poi l’Atlantico». Girelli sbarca a Napoli il 9 febbraio. «Ci hanno divisi per regioni e poi fatti salire sulle tradotte dirette ai quattro angoli d’Italia». L’ultimo viaggi sul carro merci del soldato Luigi Girelli, partito bambino e tornato uomo, finisce di notte. Quando il treno rallenta vicino alla stazione di Spresiano, il suo paese, nella marca trevigiana. «Ho detto al macchinista: “senti, son ferroviere anca mi, frena dioonnipotente, che scendo. E così è stato». Arriva a casa che è buio. Bussa. La madre Caterina è ancora sveglia. Apre la porta. «Appena mi ha visto, TONF, è caduta a terra svenuta». Due mesi dopo, col foglio di congedo illimitato in tasca, Girelli riprende il suo posto a Fortezza. Dopo sette mesi lo trasferiscono alla stazione di Vipiteno. Conosce Liliana Stefani, una bella ragazza dai capelli color del rame. Si sposano. La vita riprende a correre su binari più dolci. Oggi vivono serenamente nella loro casa (dei ferrovieri) di via Crispi a Bolzano. Hanno due figli, tre nipoti e due pronipoti. Lui ha 97 anni, lei 95. «Lei - dice con ammirazione Luigi - legge ancora il giornale senza occhiali». Liliana porta il caffè e i liquori. Luigi la ferma, la tira a sé, la stringe. «Se non fosse qui con me, avrei già chiuso i battenti. Mi è stata sempre vicino. Sono stato un uomo fortunato. Per tutta la vita, Dio...». Mi ha messo la mano sulla testa? «Esatto».













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