LA STORIA

La sfida di Ndella: «Il pranzo “vietato” a Parco Stazione? Lo faccio a casa mia» 

I volontari disobbedienti cacciati dal Parco Stazione di Bolzano, hanno invitato 20 migranti per il pranzo domenicale. Ndella Mbaye ha lavorato come chef e capo sala: "L'assessore Andriollo venga a vedere come cucino"


Luca Fregona


Bolzano. Ndella Mbaye stende il riso frumentato (quello che usiamo noi in Africa) “cottura pilaf” sui piatti. Venti piatti bianchi. Al centro, con cura, sistema pezzi di manzo tenerissimo. Carne macellata halal, saltata in padella con la cipolla, poi passata nel brodo di verdure. Sale un profumo di alloro, aglio, rosmarino e pepe. Guarnisce con peperoni gialli, verdi e rossi, e pomodori tagliati a rondelle. Un tuorlo d’uovo sodo sul bordo come decorazione. La cucina è piccola ma funzionale. Lei si muove sciolta, come il capo brigata del Savoy.

Impiatta e passa al marito Papdam che poi distribuisce ai ragazzi seduti in salotto intorno al tappeto. In Senegal Ndella è stata capo sala e chef nei ristoranti di Dakar. Quando è arrivata a Bolzano, 13 anni fa, ha lavorato come cuoca per i Benedettini del Convento Muri-Gries. Un giorno i monaci l’hanno chiamata, applaudendo, ai tavoli della mensa. Per ringraziarla di quei sapori che non “avevano mai provato” in vita loro.

Le sue ricette sono finite nella guida “Auch so kocht Südtirol” (Anche così cucina l’Alto Adige), dedicata ai piatti dei “nuovi” italiani. «Io cucino col cuore - dice lei che, oltre al senegalese, parla italiano, tedesco e francese-. Quando mi hanno detto che non potevo più portare da mangiare la domenica a Parco Stazione, è stata una mazzata. Credevo molto in quello che stavamo facendo..».

La situazione ha un che di paradossale. L’assessore al sociale del Comune di Bolzano Juri Andriollo e il volontariato “di professione” si sono messi di traverso, vietando i pranzi per i migranti preparati da Ndella, adducendo ragioni igieniche e di salute sul confezionamento dei cibi. Basta dare un’occhiata a questa cucina tirata a lucido, fare un capatina qui, in viale Europa, scambiare due parole con lei, assaggiare questi piatti favolosi (altro che masterchef!), per capire quanto sia stato solo un pretesto. Ndella e il marito Papadam Diop, oggi, domenica, il Parco Stazione (o almeno una parte) l’hanno portato a casa loro, invitando una ventina di migranti a pranzo. Tutti quelli che potevano ospitare nel loro appartamento al quinto piano.

Senegalesi, gambiani, nigeriani, eritrei, ghanesi. Migranti economici, rifugiati politici e religiosi. Alcuni giovanissimi. Tutti timidi, silenziosi, rispettosi, si tolgono le scarpe appena entrati. Per molti di loro Papadam, che ha 50 anni, è una figura paterna. Un riferimento. Si fidano. Non smettono di ringraziare. «Riso e carne - spiega Ndella - è il piatto preferito. Il riso è per noi come la pasta. Ti fa sentire a casa».

«È il sapore dell’Africa. È quello», annuisce Ibrahim, 23 anni. Viene dal Senegal, dorme all’ex AliMarket, ha il permesso di soggiorno. Lavora come bracciante (lo stesso lavoro che facevo nel mio Paese). Raccoglie mele a giornata (quando mi chiamano, scatto).

Assane di anni ne ha 38. A Dakar ha lasciato moglie e due figli piccoli. Mastica poco l’italiano. Parla wolof e francese. Ndella traduce. «In Senegal non morivo di fame, ma la vita non è dignitosa, siamo poveri. Sono partito per i miei bimbi». Il tono s’inorgoglisce: «Non sono arrivato qui per fare cazzate - dice passando all’italiano -, ma per trovare un lavoro». Il tono ora è duro ma non ostile. È l’umiliazione quotidiana del razzismo che ti fa tenere alta la guardia.

Tra gli ampi divani appoggiati su tre lati del salotto, si intrecciano - con l’inglese, l’italiano, il francese, lo spagnolo e il tedesco -, almeno altre otto lingue e dialetti. Qual è oggi il “paesaggio sonoro” di Bolzano? Quante lingue si parlano per le strade in questa città? Ottanta? Cento? Bisognerebbe chiederlo all’Astat.

Una complessità - dice Papadam - che non si può affrontare con «risposte folcloristiche». Intende, l’Acra Yoga o le schitarrate stile scout a parco Stazione, affidate alle cooperative dopo bando comunale. Non si può, soprattutto, se poi cancelli l’unica iniziativa spontanea che aveva ottenuto dei risultati nel posto più ingestibile di Bolzano. «Questi ragazzi non se ne fanno niente di imparare la “posizione del loto” - sottolinea -. Hanno bisogno di cose più concrete: dove e come fare i documenti, dove dormire, dove farsi una doccia, il domicilio per lavorare, dove fare un corso di formazione, dove mangiare... Continuano ad arrivarne. Ogni domenica al parco incontravo facce nuove. Anche giovanissimi». L’ultimo è un ragazzino/bambino che vaga tra le panchine anche la notte. Papadam lo ha incrociato per caso due giorni fa. «Non so dove sia finito. Mi vengono i brividi a pensare cosa sarà di lui, e di quelli che vivono all’aperto, adesso che arriva il freddo...».

Il pranzo della domenica, insomma, era un’occasione. Un giorno “morto”, dove la solitudine è più aggressiva. La città si ferma e ti senti ancora di più un corpo estraneo. E allora arrivavano Ndella, Papadam, Monica Rodriguez della Consulta immigrati, e poi altri e altri a ruota. I “volontari irregolari” con il riso, il manzo e il pollo, cucinati come a casa, in Africa. «Cominciavano a fidarsi, a parlare. È più facile che ti confidi con uno come me. Uno con il tuo stesso colore della pelle...». Che non con un bianco neo hippie che ti suona le canzoni di Cat Stevens. «Io so di cosa hanno bisogno: sono stato un clandestino, ho dovuto sopravvivere. Oggi ho un lavoro, una casa, una famiglia». Papadam sa indicarti una possibilità, una speranza, una strada per la libertà. «Perché Parco Stazione è solo una prigione senza sbarre». Gli italiani emigrati in America o in Argentina, facevano la stessa identica cosa: fondavano circoli, associazioni di mutuo soccorso, mense, dormitori; si passavano informazioni, si aiutavano.

Molti dei migranti africani di Parco Stazione, ieri si sono radunati lo stesso alla panchina dove ogni domenica, i “volontari irregolari” portavano piatti caldi, vestiti e coperte. «Si chiedono perché non ci siamo - dice Ndella -. Pensano che li abbiamo in qualche modo traditi...». E anche se non è così, anche se ieri hanno aperto la loro casa, è la cosa che fa più male.













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