Le elezioni in un Alto Adige dalle facce molto diverse



S’è svegliato diverso, il 22 ottobre, l’Alto Adige. Anzi: profondamente diverso. Ma forse sarebbe meglio parlare al plurale, di questo territorio. C’è infatti un Alto Adige rurale, che s’è confermato quasi impermeabile rispetto a qualsiasi uragano: tedesco, fedele alla Svp, alla storia, alle tradizioni, ad un’identità molto ben definita - e da tutelare - che un voto non può riassumere, ma in parte comunque contenere, per non dire trattenere. Per sempre. Come una promessa. Come un voto, appunto. Un Alto Adige che all’incerto preferisce sempre il certo e che considera un imprevedibile e pericoloso salto nel buio anche lo spostamento di un millimetro.

Poi c’è un Alto Adige urbano: italiano nei modi, nelle abitudini e dunque anche nel voto e nelle paure. Perfettamente in linea con ogni tendenza e dunque con ciò che accade nel resto del Paese. Sempre pronto a cavalcare il cambiamento, reale o presunto che sia. Disposto a cambiare idea e anche a tornare indietro, quando serve. Un cittadino che abita in un’imprevedibilità che non è fatta solo di emozioni, ma anche di sogni, di sbalzi d’umore, di fantasia, di immancabili e cocenti delusioni. Passeggere, ovviamente. 

Ma c’è anche un Alto Adige traversale, imprevedibile, un po’ italiano e un po’ tedesco, un po’ di destra e un po’ di sinistra: quello che Salvini lo votiamo anche se siamo tedeschi; quello che Köllensperger lo votiamo anche se siamo italiani; quello che nessun sondaggista e nessun analista riesce ad intercettare, a leggere, a capire. Insieme moderno e antico, reazionario e rivoluzionario, eterno cercatore di vento in un mare indefinito.

Per quanto possa sembrare paradossale, hanno vinto tutti. Chi conserva (la Svp ha retto bene all’urto, anche se Kompatscher è uscito indebolito dalla corsa delle preferenze). Chi rivoluziona e cambia (lasciando il Pd per la Lega, la destra italiana o tedesca per nuovi lidi). Chi spiazza (votando la Lega e il Team Köllensperger, ma non solo). Chi torna alle urne dopo anni di disaffezione, garantendo agli italiani di passare dai cinque consiglieri di 5 anni fa agli otto di oggi.

La vittoria di tutti contiene però un paradosso: cambiando voto e idea, gli elettori fanno regolarmente “saltare” qualcuno. Questa volta è toccato al Pd, che porta in consiglio il solo Repetto, a Forza Italia, scomparsa dal radar, e alla destra tedesca, che esce a dir poco ridimensionata dalla tenzone di domenica. In altre occasioni, sia chiaro, è toccato ad altri. Gira anche la ruota della politica. E l’imprevedibilità produce anche risultati strani: l’eterno ritorno in aula di Urzì (Alto Adige nel cuore/Fratelli d’Italia), la conferma di un consigliere targato Movimento 5stelle (Nicolini). Un risultato, questo, che da certi punti di vista si può considerare deludente, ma che diventa importante se si considera che i grillini restano in aula malgrado la fuga di elettori e voti verso un Paul Köllensperger che resta il vero vincitore di queste elezioni. Ci ha messo faccia e nome, in poche settimane - non riuscendo a convincere il Movimento 5stelle a cambiare insieme a lui - ha fondato un partito ed è letteralmente esploso. Occhio, però, al concetto di poche settimane: perché per cinque anni Köllensperger ha lavorato in modo capillare sul territorio, diventando per molti un punto di riferimento e palesandosi come l’uomo alternativo: alla Svp; ai partiti di destra tedeschi; a chi per ragioni diverse non si sentiva più rappresentato in consiglio provinciale e così via. Una vittoria come questa non si improvvisa: si costruisce di giorno in giorno. Non solo con contributi, favori e giochetti, come pensano invece altri. A cominciare dall’ex vicepresidente Christian Tommasini, che è invece il grande sconfitto di queste elezioni. I voti che lui e il Pd hanno perso per strada - e gli errori commessi tanto nella gestione del potere quanto nel fin troppo silenzioso appoggio alla Svp - sono una via crucis che il centrosinistra dovrà percorrere più volte, se ha intenzione di ripartire: per ritrovare un vigore che non ha certo perduto solo per colpa di Renzi e di tutti i litigi e le divisioni che hanno trasformato la macchina da guerra nazionale in un burattino abbandonato in un angolo con le gambe spezzate e i fili recisi.

Un ciclo politico è finito, in Alto Adige. La sopravvissuta Svp lo sa molto bene. E lo capirà ancora meglio quando si metterà al tavolo per formare la nuova giunta: che non nascerà più da una sorta di concessione (l’autosufficienza, come scrivevo ieri, è ormai perduta), ma dalla necessità di formare una vera coalizione. Il che prevede - come si ama dire oggi - l’elaborazione di un contratto ancor prima che di un programma. Per la prima volta, basterà infatti un veto per complicare il cammino di un governatore Kompatscher che dovrà anche non farsi superare (da destra, ovviamente) dalla giovane stella del voto e del partito: l’Obmann Achammer. Si parte in salita, insomma. Ma il destino sembra segnato. Difficile infatti immaginare che Arno possa prescindere dal vice (vice?) presidente del consiglio Matteo Salvini (altro grande vincitore di queste elezioni, con tutto il rispetto per i suoi uomini locali), dal nuovo presidente trentino Maurizio Fugatti, che ha vinto praticamente a mani basse, dalla Regione (che un ruolo nuovo lo dovrà pur avere, al di là di chi la guiderà) e da un disegno che non potrà più uscire solo dalle stanze di via Brennero (sede della Svp) per essere semplicemente vidimato dall’alleato italiano di governo. E non sarebbe diverso se Kompatscher osasse strambare, come dicono i velisti, governando con il Pd e con i Verdi (che hanno tenuto, anche se forse s'aspettavano di più, dopo aver visto quanto è accaduto in Baviera) e forse persino con il Team Koellensperger (o con il Team e il Pd e senza Verdi, ma in questo caso Koellensperger dovrebbe chiedere a uno dei suoi di dimettsri, per far posto a un eletto italiano, indispensabile per la formazione della giunta).

Tornando alla Regione e a Trento, vien spontaneo parlare di terremoto. Anche se ha ragione, il politologo Cristiano Vezzoni, quando dice che il terremoto è un evento imprevedibile: quel che è successo a Trento era invece di gran lunga prevedibile. Dunque il tracollo del centrosinistra non è solo una questione politica, ma anche una questione semantica. In tutti i casi, la storia ieri è cambiata definitivamente. In anni più o meno lontani qualche bordata era arrivata - soprattutto dal voto nazionale - ma il sistema ha sempre retto e a governare - da sempre - sono stati prima il centro e poi il centrosinistra, al quale negli ultimi vent’anni è stato aggiunto un prezioso aggettivo: autonomista. Ebbene, quella storia non c’è più. Perché Salvini ha vinto: sì, ancor prima di Fugatti e del centrodestra, è stato Salvini a dominare queste elezioni: con ciò che ha promesso a Roma, con ciò che sbandiera ogni giorno (pochi e chiari concetti, poco conta se realizzabili) e con una presenza a dir poco assidua sul territorio. Bastava assistere a un suo incontro o a un suo comizio - con tifo da stadio, selfie e desiderio di contare e di contarsi - per capire come sarebbe finita. Per cogliere che la roccaforte trentina non avrebbe retto a questo doppio cazzotto: prima il pugno in faccia del 4 marzo, poi il gancio di ieri a un pugile che non ha saputo reagire. Già, perché accanto a chi vince c’è sempre anche chi perde: il centrodestra trentino s’è compattato e, forte di nove liste, ha portato il sottosegretario leghista Maurizio Fugatti ad un trionfo che non ha precedenti. Il centrosinistra ha fatto invece l’opposto: non ha imparato la lezione del 4 marzo; s’è diviso; non ha avuto la capacità di corrispondere alle domande di cambiamento che arrivavano dalla società; ha di fatto sfiduciato Rossi mentre ancora governava la Provincia (e Rossi ha reagito nel modo peggiore: candidandosi contro tutti) e non ha saputo approfittare ad esempio dell’unica vera novità del voto trentino. La nascita della Lista Futura2018, movimento spinto dal giornalista Paolo Ghezzi e da molti mondi (di sinistra, di centro, di matrice cattolica, d’esperienza e per così dire di fantasia) che hanno cercato di fare sintesi delle richieste di cittadini disorientati, lavorando sul concetto di speranza e intercettando certamente molti elettori che, in assenza di proposte come questa, non sarebbero nemmeno tornati a votare.

Sulla sfondo c’è infine la vituperata Regione: difficile dire se Kompatscher e Fugatti, per governarla, punteranno ancora sulla staffetta, ma in un momento come questo è fondamentale che abbiano un’idea precisa. Perché il messaggio che arriva dal voto vale anche per la Regione: uniti si vince, separati si perde. 

 













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