Liliana Segre, una fiaccola contro l'oscurità


di Alberto Faustini


A otto anni l’hanno allontanata da scuola. Per le leggi razziali. A 14 l’hanno deportata. Ad Auschwitz. Come altri 776 bambini italiani. Colpevoli di essere ebrei.

Fra i 25 ragazzini che uscirono con le loro gambe da quel campo di concentramento, c’era anche lei. E una parte di lei è rimasta prigioniera per altri 45 anni. In ricordi che non trovavano voce, se non con le persone più vicine. In parole mute. Nell’indifferenza di un mondo che s’è a lungo rifiutato di capire. E che ancora tende a rinnegare quegli anni. Quei morti. Quello sterminio. 

A 60 anni, «quando il groviglio interiore s’è sciolto», ha trovato la forza di parlare. Diventando una delle più lucide testimoni dell’Olocausto. Facendo della memoria un vaccino per sconfiggere non solo l’indifferenza, ma anche le tante riletture distorte della storia. S’è fatta guidare dalla forza della vita. Raccontando anche la vita spezzata di chi non ha potuto crescere, invecchiare, lavorare, amare: perché s’ visto strappare l’esistenza in quella pagina d’orrore che rischiamo ogni giorno, in assenza di testimoni oculari, di scordare. Di perdere. Accartocciata insieme ai mostri che la scrissero.

Da quel giorno di una trentina d’anni fa, lei ha costruito ponti fra generazioni. Strade di conoscenza fra giovani che hanno ancora voglia di ascoltare storie piene di verità, anche se la verità ha il sapore atroce della Shoah: «Quando ho iniziato a parlare, la mia priorità è sempre stata quella di parlare ai ragazzi». Da nonna. Nonna anche della bambina che non ha mai potuto essere.

Liliana Segre, con i suoi quasi 88 anni, è questo e molto altro. Una donna. Un simbolo. Una testimone. Una ragazza tenace che accende una luce nell’oscurità. Ora è anche una senatrice a vita. E scegliere la donna che ha attraversato le pagine più nere del Novecento, come ha fatto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella con un gesto che ha una forza senza eguali, ha molti significati. È una risposta al ritorno del razzismo e dell’intolleranza. È un richiamo a chi crede che la politica sia solo un orto di privilegi e di pochezza. È un antidoto contro la solitudine, la superficialità e la paura.













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