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Strage del 3 maggio, protesta sotto il muro: «Martiri dimenticati» 

Marco Cavattoni, figlio di uno dei sopravvissuti all’eccidio «Perché il Comune non mette una targa con tutti i nomi?»


di Luca Fregona


BOLZANO. Marco Cavattoni è figlio di Andrea, il partigiano «Dighe», guardiano della fabbrica SIDA, messo dai tedeschi al muro della Lancia (oggi Iveco) la mattina del 3 maggio del 1945 con altri lavoratori rastrellati in Zona industriale. Domani mattina, festa della Liberazione, Marco Cavattoni sarà davanti al muro di via Buozzi alle 10.20 in punto con un cartello appeso al collo, proprio quando arriveranno le autorità per le celebrazioni di rito. Un cartello con i nomi dei morti (11) e dei feriti (19) di quella giornata maledetta che ha insanguinato per sempre l’anima della Bolzano operaia, l’unica - per decenni - a tramandare la memoria di quei martiri. L’elenco dei nomi lo ha ricostruito lui, perché uno ufficiale, col timbro degli storici, per intenderci, non esiste. In 73 anni, l’unico omaggio della città è la targa generica “Agli umili difensori della libertà, che qui caddero vittime della ferocia nazista”, messa nel primo dopoguerra dai “compagni della lancia”. Poi è calato l’oblio. Anzi: la rimozione.

Perché la rappresaglia tedesca era scattata a guerra ormai finita (mentre gli americani entravano in città), tra partigiani dell’ultima ora, ordini del Cln disattesi, e tatticismi “geopolitici” sul futuro prossimo dell’Alto Adige (Austria o Italia?). Dopo una sparatoria all’alba davanti alla Lancia, la “ferocia nazista” si è abbattuta così su operai presi a caso tra fabbriche e officine di tutta la Zona. Marco Cavattoni ha passato gli ultimi anni in polverosi archivi per ricostruire quel giorno. Per stilare l’elenco esatto dei nomi di tutte le vittime, morti e feriti, il luogo esatto della cattura e delle esecuzioni. Ha spulciato uno ad uno i vecchi faldoni dell’ospedale civile, i fascicoli dell’Archivio di Stato e dell’Archivio storico comunale. Ha bussato alle porte dei sopravvissuti e dei familiari dei morti. Ha incontrato orfani, vedove, fratelli, sorelle, nipoti, testimoni. Ore di lavoro che sono diventati giorni, mesi, anni. Il risultato è su quel cartellone che porta al collo come si faceva negli anni Sessanta. Una protesta pacifica ma determinata. Un tazebao con 30 nomi. Trenta storie che - con una documentazione monumentale - ha messo a disposizione dell’Anpi e del Comune. Con una sola richiesta: una nuova targa sul muro della Lancia che faccia finalmente memoria di quelle vite stroncate (o segnate per sempre) il 3 maggio 1945 in Zona industriale (i tedeschi continuarono poi la mattanza in piazza Matteotti, via Firenze, viale Druso, uccidendo altri innocenti, ndr).

«Una targa con tutti i nomi - sottolinea-. Morti e feriti. Uno per uno. Nome e cognome. Ci vuole tanto? Se il Comune non ha soldi, li metto io...». Purtroppo, fino ad oggi, sono arrivate solo vaghe promesse. Quei morti danno ancora fastidio. Non sono ideologicamente spendibili. Lavoratori, cristiani senza colpe, travolti dalle ultime scorie del conflitto. Uccisi a caso, presi nel mucchio dentro le loro fabbriche. Alla Lancia, alla Sida, alla Saffa, alla Ceda. Le loro storie mettono di fronte alla brutalità della guerra, che ha poco di eroico e tanto di sporco. Puzza solo di sangue, tragedia e orrore. Ilfo Borin, 19 anni, è stato ucciso con un colpo alla testa nei capannoni della Lancia, Annibale Bertolina, 35, all’ingresso, Ermanno Bonani, 18, appena fuori dallo stabilimento. Romolo Re e Virgilio Lorenzetto davanti alle Distillerie Federali (oggi via Simens). Arturo Pontalti, un piccolo imprenditore di 36 anni, nella sua carpenteria sul lungo Isarco, dove oggi c’è il Twenty. Andrea Gabrielli con un colpo al cuore e uno alla testa a due passi dalle Acciaierie. Davanti al muro della Lancia, a colpi di mitraglia, muoiono Walter Saudo, 60 anni, Antonio Peretto, 45, Fausto Bonato, 37, Napoleone Canazza,48. Altri 19 restano gravemente feriti. Andrea Cavattoni, papà di Marco, è sopravvissuto con un groviglio di pallottole in corpo. È morto nel 1991. Non ha mai smesso mai di ricordare.

Ora tocca alla città non lasciare questo peso solo ai familiari.

 













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