«La luce del sole per produrre fino a 60 chili di mele ad albero» 

La trasferta. I dati sorprendenti del viaggio di 1 mese del ricercatore altoatesino Christian Andergassen in Nuova Zelanda. Grazie ai fondi della Provincia è stato al «il Plant and Food Research di Hawke's Bay»


Massimiliano Bona


Vadena. Quanto a produzione di mele l’Alto Adige non teme confronti. Basta elencare alcune cifre: l’area dedicata alla coltivazione ha un’estensione di 18.400 ettari, da Salorno, lungo la Valle dell’Adige, al Burgraviato fino a raggiungere la Venosta ma interessa anche la zona della Val d’Isarco e i dintorni di Bressanone. La chiave del successo sono le 7.000 aziende familiari sparse sul territorio: si tratta di realtà di ridotte dimensioni, con appezzamenti di 2–3 ettari, spesso suddivisi a loro volta in più lotti anche distanti gli uni dagli altri. Ed è proprio questa parcellizzazione che garantisce le condizioni di crescita ideali per le diverse varietà. Fatta questa premessa sarebbe miope, pur essendo “i migliori”, non andare a vedere cosa fanno gli altri produttori. Christian Andergassen - esperto di fisiologia del melo al Centro di Sperimentazione Laimburg – grazie ai fondi della Provincia ha trascorso un mese in Nuova Zelanda presso il «Plant and Food Research di Hawke's Bay», per apprendere e confrontarsi, ma anche per condividere il proprio know-how su tematiche riguardanti le tecniche di allevamento del melo. Lo abbiamo intervistato per capire cosa ha portato in dote da questa esperienza in una realtà profondamente diversa dalla nostra.

Dottor Andergassen, lei è ricercatore e responsabile del gruppo di lavoro “Fisiologia Frutticola”. Di cosa si occupa?

«Una frutticoltura moderna mira a qualità, produzioni regolari, contenimento dei costi e rispetto dell'ambiente. Nelle nostre attività sperimentali ci occupiamo di esaminare nuove forme e sistemi di allevamento in grado di sfruttare meglio la luce solare ed eseguiamo prove di potatura e diradamento dei fiori e dei frutticini».

Grazie al finanziamento della Provincia lei è stato in Nuova Zelanda. Che situazione ha trovato?

«Il mio soggiorno di ricerca si è svolto a Hawke’s Bay, nella costa est dell’isola del nord della Nuova Zelanda, dove si trova la regione con il comprensorio melicolo più vasto del Paese con 5.000 ettari. Qui si trova anche uno dei distretti del Plant & Food Research, un istituto che, con oltre 900 persone, si occupa di ricerca scientifica e sviluppo basati sull'innovazione per valorizzare il mercato di prodotti agricoli e alimentari».

La luce del sole è la risorsa principale sui cui lavorano gli esperti di fisiologia. In che modo si può “usare” la luce solare a proprio favore?

«L’agricoltura non è altro che catturare la luce del sole per trasformarla in raccolto. Il punto sta nel riuscire a indirizzare la pianta in modo che l’energia catturata dal sole venga trasformata in mele e non in nuovi rami e foglie».

Ha lavorato con i ricercatori neozelandesi per osservare le loro tecniche in fatto di sfruttamento dell’energia solare?

«Esatto, ho partecipato a diverse attività in campo nell’ambito di un progetto di ricerca che mira a raddoppiare il volume del raccolto in futuro. La classica tipologia di allevamento a forma di “spindel slanciato” o fusetto, utilizzata per la maggiore anche nei frutteti in Alto Adige, permette di catturare la luce del sole al 50-55%. Nei casi migliori sono stati raggiunti raccolti di circa 100 tonnellate per ettaro».

Cosa accade invece in Nuova Zelanda? Qual è l’obiettivo?

«Nel progetto eseguito in Nuova Zelanda i ricercatori contano di raggiungere una produzione di 178 tonnellate (fino a 60 chili ad albero ndr) per ettaro grazie a un’ottimizzazione dell’utilizzo della luce solare (85%)».

Come intendono ottenere questo risultato?

«Sperimentano dei prototipi di alberi con un numero elevato di assi in grado di sopportare anche una quantità maggiore di frutta, mantenendo l’equilibrio fisiologico tra produzione di frutta e crescita vegetativa».

Quali sono quindi le principali differenze che ha riscontrato tra i metodi altoatesini e quelli neozelandesi? Abbiamo da imparare o da insegnare?

«Credo sia molto difficile confrontare due realtà così diverse. In Alto Adige ci sono per lo più aziende familiari con piccole aree coltivate, mentre in Nuova Zelanda ci sono poche, ma grandi fattorie con vasti terreni. A differenza dell’Alto Adige, in Nuova Zelanda vengono applicati sistemi di allevamento molto diversi fra loro. Ogni azienda cerca di trovare la propria "ricetta", il che porta a problemi nella pratica».

Cosa significa per lei essere un ricercatore?

«Affrontare ogni giorno sfide nuove e trovare soluzioni. Sono cresciuto con l'agricoltura e fin dall'infanzia mi appassionava stare nella natura. Da un lato, la ricerca applicata a Laimburg mi consente di sviluppare soluzioni concrete per i problemi dell'agricoltura altoatesina e, dall'altra, di pensare anche fuori dagli schemi e guardare in avanti per sviluppare metodi nuovi e innovativi. Un esempio? La verifica delle strategie di diradamento di fiori e frutti per la regolazione della produzione, che rappresenta ogni anno un’importante sfida per gli agricoltori».

©RIPRODUZIONE RISERVATA.













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