Laimburg sceglie un’infettivologa per combattere le mele nane 

Il personaggio È stata nominata a capo del gruppo di lavoro  di genomica funzionale. «Mi occupavo del sistema urogenitale umano ora studio piante, insetti vettori e fattori ambientali. Sono una creativa»


Massimiliano Bona


vadena. In Bassa Atesina ricordano ancora bene il 2012, l’anno della prima grande ondata d’infezione degli scopazzi del melo, una malattia che ha arrecato danni di un certo rilievo ai frutteti in Alto Adige. Nei campi sono cresciute mele «nane» non commercializzabili e gli alberi infetti sono stati rimossi immediatamente. «La trasmissione del batterio che provoca la malattia, ovvero il “Candidatus Phytoplasma mali”, avviene per mezzo di insetti vettori-psille», spiega Katrin Janik, la ricercatrice del Centro sperimentale di Laimburg a capo del gruppo di lavoro di «Genomica Funzionale». La peculiarità della storia, in questo caso, è che Janik non ha sempre fatto questo, anzi. Era una stimata infettivologa che nel lungo curriculum vanta anche un’esperienza in Svezia, al prestigioso Karolinska Institute. Quasi a sottolineare che anche la nostra provincia riesce ad attirare ricercatori con un background di un certo spessore. Janik si considera una «creativa» nel suo lavoro e apprezza il fatto che qui – a differenza di altri Paesi europei - si riesca a dare una certa stabilità e tranquillità a chi vuole fare ricerca, anche nello stesso ambito, per parecchi anni.

«Anche in Paesi come Germania e Svezia, non solo nel resto d’Italia, ai ricercatori - ammette - dovrebbe essere data più stabilità, anche nell’interesse della ricerca scientifica stessa». Janik svolge un lavoro complesso nell’ambito delle malattie delle piante, che sintetizza con una frase quantomai eloquente: «È come se si studiasse l’impalcatura che sta dietro ad un’opera: non si vede, ma è fondamentale per l’intero sistema».

Dottoressa Janik, lei è ricercatrice ma anche responsabile del gruppo di lavoro di «Genomica Funzionale». Di che cosa si occupa in concreto?

«L’obiettivo delle nostre ricerche è trovare il collegamento tra le informazioni genetiche che derivano dal genoma di piante, insetti e patogeni ( batteri, virus e fitoplasmi ad esempio) e le loro funzioni, ma anche l’aspetto di un organismo. Ci concentriamo sull’espressione dei geni, sullo studio dell’interazione delle proteine che essi codificano e sull’effetto che queste hanno sulle caratteristiche e sul comportamento dell’organismo al centro della ricerca. È come se si studiasse, appunto, l’impalcatura che sta dietro un’opera. Questo tipo di ricerca pone le basi per capire meccanismi concreti e osservabili in natura, come la trasmissione di una malattia da un insetto a una pianta di melo o il tasso di riproduzione e quindi d’infezione di un batterio in una pianta».

Dalla Germania all’Alto Adige. Dalla microbiologia infettiva umana alla ricerca in agricoltura. Ci racconta il suo percorso?

«Mi sono laureata in biologia all’Università Leibniz di Hannover e ho conseguito il dottorato in Microbiologia infettiva alla Medizinische Hochschule nella stessa città. Dopodiché ho passato un anno e mezzo in Svezia, al Karolinska Institute, occupandomi sempre di microbiologia infettiva in particolare di infezioni del sistema urogenitale».

Come è arrivata qui dalla Scandinavia?

Nel 2012, il mio compagno, di origine italiana, ha trovato lavoro in Alto Adige e ho deciso di seguirlo. Mi sono interessata da subito alle tematiche di ricerca del Centro di Sperimentazione di Laimburg, anche perché volevo cambiare area di ricerca, passando dall’infettivologia umana alla ricerca in ambito agricolo. Ho avuto la fortuna di trovare al Centro una posizione come collaboratrice scientifica, che mi ha permesso di applicare le metodologie di ricerca che ho utilizzato finora, ma con un orientamento completamente diverso».

Di cosa si è occupata al suo ingesso al Centro di Sperimentazione Laimburg?

«Da subito il focus della mia ricerca sono stati gli “scopazzi del melo”. Era il 2012, proprio l’anno prima della grande ondata d’infezione, che ha causato molti danni ai meleti dell’Alto Adige. Probabilmente anche quest’evento ha dato una forte spinta alla ricerca in quest’ambito e ci siamo impegnati molto a capire questa fitopatologia in ogni suo aspetto. Si tratta, oggettivamente, di un problema complesso, in quanto è necessario studiare le interazioni tra molteplici fattori, quali la pianta stessa, il patogeno, gli insetti vettori, i fattori ambientali, ma anche i fattori abiotici (i componenti di un ecosistema che non hanno vita ndr). La malattia infettiva degli scopazzi del melo causa danni significativi al raccolto, portando alla crescita di mele piccole non commercializzabili e gli alberi infetti devono essere rimossi immediatamente».

Come avviene la trasmissione del batterio che provoca la malattia?

«La trasmissione del “Candidatus Phytoplasma mali”, avviene per mezzo di insetti vettori psille».

In particolare su cosa vi siete concentrati?

«Capire le basi genetiche è fondamentale per capire poi l’insieme e l’evolversi di una malattia. In collaborazione con il Centro di Consulenza per la fruttiviticoltura dell’Alto Adige e la Fondazione Edmund Mach di San Michele all’Adige, abbiamo ottenuto in questi anni alcuni risultati significativi, che sono stati riconosciuti anche a livello nazionale e internazionale».

Cosa avete studiato in particolare?

«Come viene trasmesso il patogeno e quali meccanismi molecolari si verificano quando la malattia si sviluppa nella pianta. Inoltre, con il contributo di tutto il team, abbiamo sviluppato un nuovo metodo di analisi ad alto rendimento per studiare in modo sistematico i vari insetti e determinare se sono infettati con il patogeno. Grazie a questo metodo siamo in grado anche di determinare la quantità di patogeno presente in ogni insetto. Quest’informazione ci permette di valutare se esso è un potenziale candidato come vettore della malattia. Queste scoperte sono il punto di partenza per studiare una strategia di contrasto della malattia e per evitare una nuova ondata. Inoltre, assieme al gruppo di lavoro Pomologia del Centro Laimburg, testeremo portinnesti di meli resistenti alla malattia. Indagheremo anche le molecole che stanno alla base di questa resistenza e studieremo i fattori molecolari che scatenano la malattia. Uno degli obiettivi principali è capire come fanno i batteri a manipolare i processi di crescita della pianta e dei frutti».

Cosa le piace di più dell’essere in prima linea nella ricerca?

«Ciò che più mi affascina è partire con la ricerca del piccolo per poi comprendere tutto l’insieme. Mi spiego meglio: studiando le basi della vita, il Dna e i suoi geni, riusciamo a trovare risposte, o almeno indicazioni per fornire delle risposte, su problemi che ci colpiscono concretamente nella quotidianità. Dietro ad una mela, che è rimasta nana e non è commercializzabile, si nasconde un mondo visibile solo al microscopio ma anche una catena di eventi. Ed è nostro compito scoprire e svelare ogni singolo tassello di questa catena».

Ma perché ha scelto proprio l’Alto Adige. Per una maggiore possibilità di conciliare famiglia e lavoro?

«Devo sottolineare che ho continuato a fare ricerca, perché qui ho avuto la possibilità di bilanciare in maniera equilibrata vita professionale e vita privata, soprattutto ora che ho un figlio. Troppo spesso, anche in Germania e in Svezia, ai ricercatori non viene offerta sufficiente stabilità. Se non hai un contratto fisso alle spalle, diventa difficile seguire un filone di ricerca nel corso di diversi anni».

Cosa significa per lei essere un ricercatore?

«I ricercatori devono essere necessariamente dei creativi. Cooperare su diversi fronti con tante persone perseguendo tutti il medesimo scopo: trovare la soluzione a un problema concreto. Senti di far parte di una squadra e la gratitudine di chi, grazie alla nostra ricerca, ne trae vantaggio, ti dà l’energia e carica per continuare».

Scopazzi del melo: individuati la prima volta negli anni Cinquanta in Veneto e Trentino.

La malattia degli scopazzi del melo in Alto Adige è una fitopatologia nota fin dagli anni Cinquanta, che tuttavia solo nel periodo compreso tra il 1998 e il 2000, «dopo un lungo periodo di tregua», si è manifestata con particolare frequenza negli impianti di melo a coltivazione intensiva. La malattia ha colpito soprattutto le zone di coltivazione collinari, anche in Bassa Atesina, e la Venosta. Nel 2005 nell’intera area frutticola dell’Alto Adige si è dovuta constatare una forte crescita nel numero di piante infestate. Soprattutto nel Burgraviato e nella Bassa Venosta la malattia era diventata una minaccia dal punto di vista economico e per questo nel maggio 2006 la giunta provinciale di Bolzano ha approvato un programma per la lotta contro gli scopazzi del melo che prevedeva, tra le altre cose, l’obbligo d’estirpazione immediata delle piante sintomatiche.

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