UNA VITA AVVENTUROSA

Beniamino Leoni, il legionario bolzanino che ha combattuto col Viet Minh

La storia di Beniamino Leoni, da Buchenwald a Dien Bien Phu. Fatto prigioniero, ha disertato e combattuto con l'esercito di Ho Chi Min

 


Luca Fregona


BOLZANO. Volontario in Grecia nella seconda guerra mondiale. Istruttore della Hitlerjugend a Buchenwald dopo l’8 settembre. Ma anche eroe della resistenza dall’inverno 1944 fino alla Liberazione. Nel dopoguerra: autista per Tazio Nuvolari. Minatore in Francia. Legionario in Indocina. Prigioniero dei vietcong. Rieducato. Guerrigliero con l’esercito di Ho Chi Min per sei anni... Non basterebbe un libro a raccontare la vita di Beniamino Leoni, bolzanino, classe 1924, morto l’11 settembre 2001 in una stanza d’ospedale. Prima di chiudere col mondo, aveva però deciso di raccontare la sua vita scomoda e pericolosa. Senza tacere nulla. Senza vergognarsi di niente. Anche delle cose di cui non andava fiero. «Prendersi la responsabilità di quello che si è fatto - diceva - è l’unico modo per andarsene in pace».

LEGIONE.

Finita la seconda guerra mondiale, Leoni inizia a fare l’autista per Tazio Nuvolari. Col suo camion va in Austria a recuperare vecchi carroarmati della Wehrmacht che il grande Tazio trasforma in trattori nella sua fabbrica di Mantova. «Ma la paga era bassa - raccontava ancora con una punta di fastidio -, il lavoro saltuario. Così decisi di tornare a Bolzano». Bolzano, via Milano, periferia operaia, 23 anni e niente in tasca. Sui muri vengono appesi manifesti in cui si cercano lavoratori per le miniere di carbone in Francia. «Non ci pensai su due volte. Mi presentai all’ufficio di collocamento in via Giuliani. Fu li che conobbi Arsenio Boschetti». Il natale del 1946 Beniamino Leoni lo trascorre nelle miniere di carbone di Billy Montigny. «Era una vita di merda. Lavoravamo a 1.200 metri di profondità. I due terzi della paga finivano in alloggio e mensa. Dopo quattro mesi io e Arsenio ci siamo guardati, e abbiamo detto basta. Avevamo tre possibilità: tornare in Italia da sconfitti, rimanere in Francia da clandestini (e rischiare la galera), arruolarci nella Legione straniera. Scegliemmo la Legione". Leoni e Boschetti vendono letto e materasso e scappano a Parigi. Il 9 maggio 1947 vengono dichiarati abili e arruolati, e spediti per un mese a Marsiglia, a Forte San Nicolà, per l’addestramento: «Dopo un mese ci caricarono su un battello, una carretta. Direzione: Algeria. Per il viaggio mi misero in testa un képi sporco di sangue di cervello. Umano. E siccome tutte le parole che finiscono in vocale per i francesi sono accentate, divenni Leonì. Il battello era un cargo di trasporto bestiame: noi eravamo nella stiva bassa. Sopra c’erano gli animali che ci pisciavano addosso. La merda passava dalle assi. Sopra ancora dormivano i mercanti, i vaccari, e i pastori. Noi eravamo la categoria più bassa e infame, e volevano che non lo scordassimo mai". Leoni viene portato al centro addestramento della legione di Sidi bel Abbes. Compagnia reclute. «Una casermetta a tre piani. Nel giroscale, ad ogni piano, c’era una scritta sul muro. Al primo: "Legio patria nostra". Al secondo: "Legionario sei fatto per morire e ti mandiamo dove si muore. Firmato: generale De Negrier". Al terzo, la più bella:"Legionario prima di parlare di una donna ricordati che hai una madre". In fondo, era l’unica che avesse un minimo di senso. Dalla mattina alla sera ci riempivano la testa con l’onore, la morte, il dovere. Tutte cazzate». LEGIONE Autunno 1947: Ho Chi Minh intensifica la resistenza contro i francesi. In dicembre Leoni e Boschetti vengono spediti in Indocina. Trentuno giorni di viaggio in nave fino a Saigon. A Saigon vengono separati, Leoni parte per la regione del Quang Tri, nel centro del paese. Una delle zone più calde. «I viet attaccavano con precisione e ferocia. Ci tenevano sotto. Ci ammazzavano senza che neanche potessimo dire bah. Non eravamo più al sicuro nemmeno dentro le aserme. Molti disertavano. Eravamo sempre sotto adrenalina. Nella legione ti trasformi. Non sei più un uomo, sei solo un guerriero che deve stare attento anche ai propri compagni. C’erano fascisti e nazisti tedeschi, ma anche tanti comunisti. Quando un "rosso" veniva scoperto, erano cazzi. Veniva ucciso subito. Chi scappava e veniva ripreso era un uomo morto. Ricordo un ungherese. Aveva disertato ma non riuscì a passare coi viet. E’ stato catturato, portato in caserma, spogliato, appeso a un palo e scannato come un animale. Con un coltello da cucina. Quando entravamo nei villaggi la nostra vendetta era tremenda: con questi occhi ho visto segare la testa a prigionieri vivi, non solo partigiani, anche semplici contadini, anche le donne, anche i bambini. Li prendevano: in due li tenevano fermi, un terzo segava. Era una macelleria. Io guardavo e non pensavo. Volevo solo sopravvivere e tornare a casa». Il 20 marzo 1949, Beniamino Leoni cade prigioniero. La sua cattura è riportata anche nel libro "La Storia della legione". Lui la ricordava così. «A Don-Ga ci hanno attaccato di notte. Stavo dormendo in camerata. Con me c’era Schmidt, un tedesco nazista, uno di quei criminali da galera che tagliavano la testa ai prigionieri. Siamo scesi giù dalla branda. In mutande. Nel cortile abbiamo visto i corpi di alcuni nostri compagni e ci siamo infilati in un automitragliatore. Aveva il motore rotto, non si muoveva, ma le armi funzionavano. Sparavamo come pazzi. Nell’abitacolo c’erano anche delle granate che Schmidt inizia a buttare fuori dall’oblò. Le granate esplodono. Le schegge bucano le gomme del blindato. Dai copertoni esce l’aria compressa. Che fa fffffff. Schmidt come al solito non capisce un cazzo. Pensa che ci vogliono far saltare in aria. Inizia a urlare: "E’ la miccia di una bomba E’ la miccia di una bomba". Allora quel gran figlio di puttana si mette in testa di far esplodere una granata dentro il carro. "E meglio che moriamo prima", diceva. Tremava alla sola idea di finire vivo nelle mani dei viet. Dal suo punto di vista aveva ragione, non sarebbe durato a lungo. Un bastardo simile l’avrebbero fiutato al volo. La situazione era disperata: gli altri erano tutti morti, noi due soli coi bossoli che bruciano nell’abitacolo, io in mutande, e’sto disgraziato che vuole suicidarsi. Ho pensato: "E’ finita". Lampo di genio: capii che coi viet c’era un disertore. Lo chiamai: "Aspetta. Falli smettere. Parliamo. Mi arrendo". Quelli continuano a sparare. Poi silenzio. Poi un urlo: "Sei Leonì?". "Sì sacramento, sono Leonì" Apro il portello della torretta. Raffica di mitra. Urlo: "Non sparare". Riapro, e non sparano. Metto fuori la mano, e non sparano. Esco, e non sparano. Mi consegno. Schmidt è rimasto raggomitolato nel carro. Ma non si è mica tirato addosso una granata E’ stato zitto. Immobile. Nessuno mi domandò se c’era qualcuno dentro con me, e io non dissi niente. Quello che mi aveva chiesto se ero "Leonì" era un disertore tedesco. Mi spiegò subito la situazione: "Se ti dichiari disertore, salvi la pelle, altrimenti i viet ti aprono la pancia". Andai coi disertori».

 

I VIETCONG

Leoni viene aggregato a una compagnia di ex legionari. «Eravamo considerati "Han bin", rialleati. Secondo loro noi veniamo tutti dal proletariato. Entrando nella legione avevamo tradito la nostra classe d’origine, diventando un’arma dell’imperialismo. Ma adesso che eravamo disertori e stavamo con il Vietminh, ci eravamo redenti. Per diversi giorni ci impartirono lezioni di politica e comunismo. Ci fecero imparare Marx come l’Ave maria. Noi disertori rappresentavamo qualcosa d’importante per i viet. Ci portavano in giro nei villaggi a fare proselitismo. Tutta una messa in scena per dire "vedete, sono occidentali e combattono con noi". Durante gli attacchi dovevamo urlare col megafono ai nostri ex compagni di disertare». Un giorno arriva al campo un ufficiale e chiede se qualcuno se ne intende di artiglieria. «Alzai la mano. Da quel momento cominciai ad occuparmi dell’organizzazione dell’armamento pesante per il Vietminh. Iniziai a girare nei territori liberi. Chilometri di piste, sentieri, strade. Sempre di notte. Sempre a piedi. Conquistai la fiducia dei vietnamiti rimettendo in funzione un cannone che era rimasto nascosto dalla ritirata del 1947. Era nel fango da due anni. Un cannone enorme, solo la canna pesava tre-quattro quintali. Avevo sempre attaccati al culo due partigiani. Erano gnak, contadini. Di meccanica capivano meno di zero. Ci abbiamo impiegato due mesi per rimetterlo insieme. Poi l’abbiamo provato. Primo obiettivo: un muro di sassi a un chilometro di distanza. Colpito. All’esperimento assistette il colonnello Havan Lao, un pezzo grosso che è stato anche rappresentante del Vietnam del nord agli Accordi di Ginevra. Essere riuscito a rimettere in moto quel ferro arrugginito, mi fece diventare una specie di eroe. Divenni membro del comitato di liberazione del Quang Tri. Imparai i dialetti viet. Nei villaggi la gente mi riconosceva. E così questa vecchia donna, che collaborava col Vietminh anche se era ricchissima, decise di adottarmi. Voleva imitare Ho Chi Minh, che aveva tre o quattro figli adottivi. Per questo i viet lo chiamavano qu Ho, zio Ho. Lei adottò me, un tedesco di nome Link, e un marocchino. Noi la chiamavamo Ba Mè Tiep, che vuol dire la mamma Tiep. Aveva più di 90 anni. Fisicamente una mummia. Alta, magra, secca. Molto affettuosa. Faceva la commerciante di tabacco. Mamma Tiep mi dava da mangiare il meglio, mi vestiva come un damerino, mi coccolava. Ero sempre ricoperto di seta. Avevo però sempre paura di morire. Sei anni di guerra nella giungla sono molti. Ho combattuto sulla strada coloniale numero nove. Ho partecipato all’assedio e all’attacco di Huè, la vecchia capitale imperiale. Ho preparato l’artiglieria per l’assalto finale a Dien Bien Phu. E’ quasi impossibile far capire cos’è un combattimento a uno che non ha mai sparato a un essere umano. Ti caghi addosso. E non sto parlando in senso metaforico. Ti riempi di merda dalla paura. Non puoi avere pietà perché gli altri non ne hanno per te. Spari per non morire».

LA CORTE MARZIALE

Nel giugno ’54, dopo la sconfitta francese, i disertori vengono ammassati in campi nel nord del paese. «Non ero più armato, ma almeno ero libero». Leoni trascorre un anno in Cina e poi torna in Vietnam ad Hanoi. «Chiesi di essere riconsegnato ai francesi. Volevo tornare in Italia. Ero tranquillo. Formalmente non ero un disertore, ero stato catturato. Mi sbagliai. Appena finii nelle mani dei francesi, a Saigon, venni sottoposto a diversi interrogatori dei servizi segreti. Mi accusarono di "assenza illegale". Sapevano che avevo combattuto coi viet. Ma io non ammisi mai niente. Venni sbattuto lo stesso davanti alla corte marziale per "avere nuociuto al 1949 al 1956 alla sicurezza nazionale, e per aiuto morale e materiale all’armata Vietminh". Mi condannarono a un anno di galera». Leoni rimane per quattro mesi in prigione a Saigon, poi altri otto nel carcere militare di Marsiglia. «Scontata la pena, dovetti fare i conti con un’altra giustizia: quella della legione. Mi riportarono a Sidi bel Abbes, in Algeria, per sottopormi al consiglio disciplinare. Mi beccai un’altra condanna a tre mesi di lavori forzati. Venni anche disonorato. Mi fecero indossare la divisa completa da legionario. Poi mi portarono in uno stanzone e davanti a tutti mi tagliarono con la forbice la cintura, la fascia blu e il sottogola del képi. Mi tolsero le spalline. Alla fine un ufficiale mi urlò addosso che ero "indegno di servire la bandiera francese". Dopo questa sceneggiata mi rispedirono a Marsiglia. Pochi giorni dopo venni espulso. Potevo tornare in Italia. A casa. In via Milano. Era la primavera del 1957. Era davvero finita».

IL RICORDO DI «COREA»

«Mi urlava dalle linee viet di stare tranquillo ero suo amico, non mi avrebbero ammazzato»

In miniera e nel primo periodo della legione, l’amico fraterno di Beniamino Leoni fu Arsenio Boschetti, classe 1921, operaio alla zona industriale, morto diversi anni fa. Un personaggio molto noto nella Bolzano operaia degli anni Sessanta e Settanta, dove era conosciuto col soprannome di «Corea», perché oltre che in Algeria e Indocina, aveva anche combattuto coi paracadutisti nel conflitto coreano. Appena arrivati in Vietnam, i due amici vennero divisi. Sebbene i loro destini presero due strade diverse, riuscirono a rimanere in contatto con un sistema di comunicazione molto speciale che salvò più volte la vita a «Corea», grazie al ruolo di Leoni nell’esercito di liberazione del Vietnam. Lo raccontò lo stesso Boschetti in un’intervista all’Alto Adige nel febbraio del 1970.

«Appena arruolati - ricordò l’ex legionario -rimanemmo alcuni giorni alla caserma della Legione di Parigi. Finalmente arrivò l’ordine di trasferimento a Marsiglia, a"Forte San Nicola". Vendemmo le ultime cose che ci erano rimaste, compreso il cappotto, e partimmo. Al forte ci raparano a zero e inziarano a prenderci a calci per addestramento. Poi un altro mese in Algeria, fino a quando, non ci fecero partire per l’Indocina. Dopo 31 giorni arrivammo a Saigon, sicuri che saremmo rimasti assieme, dato che eravamo connazionali. Invece questo era contrario alle consuetudini: il capitano del reparto, uno jugoslavo, ci separò subito. Io rimasi a Saigon e Beniamino fu spedito a Huè. Da allora di lui non ebbi più notizie precise: finché un giorno venne da me un certo tenente Novak, chiedendomi se sapevo qualcosa del mio amico. Come posso saperlo - gli risposi - se siamo a più di mille chilometri di distanza?. E lui:"Ma ti risulta che sia scappato?". Io naturalmente caddi dalle nuvole. Insomma alla fine mi disse che Beni (il soprannome di Beniamino, ndr) durante una battaglia era sparito da una località che mi pare si chiamasse Do-ri-ke-tun o qualcosa del genere. Io continuai la mia guerra e più di una volta mi accaddero durante le operazioni dei fatti strani. Mentre avanzavo con il mio carroarmato nella giungla, sentivo la voce di Beni che mi avvertiva. I guerriglieri, infatti, si mettevano sugli alberi coi megafoni e parlavano ai soldati nemici, invitandoli ad arrendersi, disertare o abbandonare il campo. E io sentivo la voce di Beni che mi metteva in guardia dicendomi magari:"Stai attento che nel tal punto ti fermerai, non riuscirai ad andare avanti", e infatti succedeva proprio così. Diceva anche che a me non sarebbe mai accaduto nulla di male, ma ai miei commilitoni sì. Insomma mi seguiva spesso. Per me comunque era stato fatto prigioniero e quando ci si trova con un coltello alla gola, come succedeva ai legionari, non c’era da scherzare. Io nel frattempo fui spedito per due anni in Corea e nel’52 venni finalmente congedato senza sapere più nulla di Beni».

«Vidi Mafalda ferita a morte». A Buchenwald gli ordinarono di aiutare la principessa

La storia di guerra di Beniamino Leoni inizia nel 1942, quando a 17 anni si arruola nell’esercito. «Nell’agosto del 1943 - ricordava - mi hanno trasferito in Grecia. L’8 settembre ero ad Atene. Non avevo fatto nemmeno in tempo ad ambientarmi. Ho girovagato per una quindicina di giorni, poi mi sono ripresentato al reparto, che era ormai occupato dai tedeschi. Mi hanno portato in lager". Lager 6C, Meppen, nelle paludi della Renania. La grande storia procede veloce, a colpi di scena, e Leoni c’è in mezzo: la liberazione di Mussolini, la Repubblica sociale, gli inviati di Salò che chiedono ai militari italiani prigionieri dei nazisti di optare per il nuovo fascismo. «Stavo morendo di fame e dissi di sì. Mi inquadrarono in un battaglione di volontari per il fronte russo. Ero il più giovane. Ci fermarono in Polonia, dicendo che il battaglione doveva rientrare in Italia. Tutti, tranne chi era nato nelle province di Bolzano, Trento e Belluno. I tedeschi ci consideravano cittadini del Reich, e così mi mandarono a Buchenwald, a fare l’istruttore della Hitlerjugend». Buchenwald era un enorme complesso militare che aveva al suo interno anche il famigerato campo di concentramento. Il 24 agosto 1944, Buchenwald viene sottoposta ad un bombardamento a tappeto da parte degli alleati. «Erano le 11 di mattina, stavo rientrando da un addestramento. La strada principale passava in mezzo alle trincee antiaeree. Tutti i soldati mi chiamavano, dicendo di far presto a raggiungreli. Avevano capito che questa volta non era il"solito" bombardamento. Pochi istanti dopo si è scatenato l’inferno. Un’ora dopo siamo usciti dalle tane. C’erano morti e feriti dappertutto. Odore di bruciato e sangue. La gente gridava. Uomini e donne senza mani, braccia, occhi. Tutti urlavano. Tutti si lamentavano. C’era chi si raccomandava l’anima a Dio. Chi bestemmiava. Pazzesco. Un sottufficiale mi dà un fucile dicendomi di fare la guardia a un gruppo di prigionieri. C’era un signore, che dopo ho saputo dopo essere Leon Blum (leader storico del socialismo francese internato nel campo, ndr) che mi chiese se fossi italiano. Risposi di sì. Mi indicò una donna seduta per terra con la schiena contro un albero. Era sporca di sangue, le colava dalla bocca. Viva ma con la morte stampata in faccia."La conosci?", mi chiese ancora. Risposi di no. E lui:"E’ la tua regina". Ho capito che era la Mafalda di Savoia perché tutti ne parlavano e la indicavano. Mi ordinarono di portarla all’ospedale, dove poi morì. Dopo mi diedero un badile per andare a disseppellire chi era ancora vivo sotto le macerie, e seppellire invece chi era morto. Per diversi giorni non facemmo altro che gettare cadaveri nelle fosse. Tra i tre e i quattromila, credo". Poche settimane dopo Leoni viene mandato a Erba, in provincia di Como, e poi in Valtrebbia. Nel dicembre del 1944 diserta e passa coi partigiani, in una formazione di Giustizia e libertà. «Prima divisione Piacenza, quarta brigata». Combatte contro le camice nere sul monte Pernice. Arriva la vigilia della liberazione, ma non è ancora finita. «Il 24 aprile’45 eravamo di stanza a Costa di Rivalta. C’erano gli sbandati che sparavano ad ogni cosa si muovesse. Erano carichi di rabbia e paura. Ci fu un conflitto a fuoco violentissimo. Mi sventagliarono addosso una raffica di mitra. Una pallottola si conficcò nella schiena. Il sangue sgorgava come l’acqua da una fontana. Ho ancora la cicatrice. Mi portarono all’ospedale di Bobbio. Mi salvarono. Il giorno dopo finì la guerra». Nella anni Settanta Leoni è stato decorato dal presidente Pertini come eroe della resistenza.

 













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