BOLZANO

Caos Pd a Bolzano, otto non pagano la quota

Il tesoriere si rivolge ai garanti nazionali. Lunedì il voto sulla chiusura della sede


di Francesca Gonzato


BOLZANO. Un partito in crisi finanziaria deve rincorrere i propri eletti per ottenere i versamenti delle quote obbligatorie, previste dallo Statuto. C’è anche questo dietro il «rosso» del Pd, che si prepara a chiudere la storica sede di piazza Domenicani, allontanando i due dipendenti. La decisione, che verrà messa ai voti lunedì in assemblea, è clamorosa e sta dividendo il Pd, ma la crisi arriva da lontano e la situazione non è migliorata, tanto che il tesoriere Salvatore Cavallo, dopo essersi rivolto ai garanti provinciali, ha inviato un ricorso alla commissione nazionale, chiedendo di intervenire contro gli eletti «morosi». Una mossa che ha provocato gli strali dei coinvolti. Il regolamento finanziario del Pd prevede che consiglieri e assessori provinciali versino il 18% della indennità lorda, assessori comunali e sindaci l’8% del lordo, i consiglieri comunali il 7% del gettone di presenza. Molti eletti rispettano le regole e altri fanno anche di più: Christian Tommasini, Roberto Bizzo e Luisa Gnecchi l’anno scorso hanno versato un contributo straordinario di 10 mila euro. Altri non versano o versano meno del dovuto. C’è ancora l’eco di una vecchia polemica tra Luisa Gnecchi e Gianclaudio Bressa sul contributo dovuto al Pd per la campagna elettorale delle ultime elezioni politiche. Ultimo arrivato, il sindaco Renzo Caramaschi, non iscritto al Pd: avrebbe promesso una donazione mensile finora mai versata. Sono otto le situazioni irregolari segnalate al Pd nazionale. La stima è che manchino all’appello circa 40 mila euro all’anno. A questo si somma il mutuo aperto per le campagne elettorali e il «buco» ereditato dalle gestioni precedenti. Il bilancio del 2013 era stato chiuso con una perdita di 193 mila euro (come pubblicato sul sito del Pd). Una situazione ingestibile, con una spesa per il personale (una impiegata e un addetto stampa) di circa 100 mila euro e il finanziamento pubblico cancellato. Così il Pd ha dovuto ricorrere l’anno scorso a una prima cassa integrazione al 60% per i due dipendenti e ha accumulato debiti con la fondazione Mascagni (proprietaria delle sedi di piazza Domenicani e via Resia). Di fronte allo sfratto (entro febbraio), arriva la decisione di chiudere tutto e chiedere la cassa integrazione a zero ore per il personale. E se i sindacati non accetteranno di firmare l’accordo, il rischio è che si proceda direttamente al licenziamento. Dura reazione del sindacato regionale dei giornalisti: «Rivolgiamo un appello a ogni membro dell’assemblea provinciale del Pd di decidere secondo la propria coscienza per garantire ai propri dipendenti un futuro professionale. Il sindacato dei giornalisti apprende con sconcerto l’intenzione del Pd di lasciare a casa i dipendenti. Va ricordato che poche settimane fa, lo scorso luglio, era stato trovato un accordo per la conferma della cassa integrazione». La segretaria Liliana Di Fede parla di scelta inevitabile e sobrietà dovuta (vedi sopra). Tommasini, che versa 2800 euro al mese, sottolinea: «Non si regge un partito sui contributi straordinari. Serve una soluzione». Bizzo accusa: «Si sta affrontando con troppa leggerezza la decisione di privare due persone del lavoro e di rinunciare alla sede, cioè al punto di riferimento del partito sul territorio. È questo il Pd che ci piace?».













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