LA STORIA

Fuggito dall’inferno libico, insultato e ferito a Bolzano 

La terribile storia di Babukarr Top, 25 anni: «Voglio vivere qui, onestamente»


di Paolo Tagliente


BOLZANO. «Quando ho sentito che mi dicevano “negro di merda” ho fatto finta di nulla, ma quando hanno insultato mia madre, mi sono arrabbiato e sono sceso dalla bici». Babukarr Top ha 25 anni, è nato in Gambia, da qualche anno vive a Bolzano e la sua storia si dipana lungo il filo di una sofferenza strettamente legata al colore della sua pelle. Una sofferenza che, ormai, “Babu” è abituato a sopportare, quasi fosse una tassa da pagare per muoversi in una società sempre più intollerante. Ma insultare la sua mamma è un’altra storia. La mamma, che gli ha insegnato ad essere un uomo onesto, che lui ha salutato quando era poco più di un bimbo e che è stata insostituibile sostegno nei momenti più bui, merita rispetto.

Lunedì, quel ragazzone di un metro e 85 dagli occhi scuri e dalla pelle d’ebano, è stato nella redazione dell’Alto Adige, per raccontare del brutto episodio di cui è rimasto vittima, giovedì sera, sulla ciclabile in piazza Mazzini, e per raccontare di come sia arrivato a Bolzano. E quella sì, è una storia che mette davvero i brividi.

Cos’è successo giovedì?

«Avevo finito il corso per la patente e stavo tornando a casa in bicicletta. Arrivato nei pressi del semaforo, mi sono trovato davanti due uomini e ho usato il campanello, per chiedere loro di spostarsi. Prima, mi hanno detto “negro di merda” e, per questo, non c’è problema. Poi, però, hanno insultato la mamma e, allora, volevo fermarmi per chiamare un vigile. Ma mi hanno colpito con una catena, da dietro, alla testa . Ero confuso, mi scendeva il sangue sulla faccia (tre le ferite, nascoste dai capelli, ndr) e mi sono rivolto a dei vigili e ho chiesto loro di chiamare i carabinieri, arrivati poco dopo. Poi è arrivata l’ambulanza e sono stato portato all’ospedale, dove sono stato medicato e da cui sono stato dimesso a notte fonda. Ho fatto denuncia ai carabinieri, ho fatto una descrizione di chi mi ha ferito e ora li stanno cercando».

Ti era mai successa una cosa simile, da quando sei in Italia?

«Mai. E mai mi sarei aspettato che quei due uomini mi colpissero con una catena».

Qual è la tua storia? Come sei arrivato?

«Ho lasciato il Gambia da solo, poco più che maggiorenne, nel 2010, e sono arrivato in Libia, dove ho lavorato per circa un paio d’anni come camionista. Lì, però, sono stato rapito e tenuto segregato per circa cinque mesi: i miei aguzzini mi chiedevano di chiamare casa, così che la mia famiglia pagasse il riscatto per la mia liberazione. Alla fine, sono riuscito a fuggire, ma non potevo più stare in Libia. Pensare di tornare in Gambia attraversando il Sahara sarebbe stata pura follia, visto che rischiavo di essere catturato di nuovo, imprigionato e magari ucciso. E così, il mio datore di lavoro s’è offerto di pagarmi il viaggio in Italia. Io mi sarei salvato e lui avrebbe potuto assumere un familiare. Mi disse che sarei arrivato in Sicilia su una nave grande e che il viaggio sarebbe durato mezz’ora. Invece, giunto al punto d’imbarco, vidi che c’era una barca minuscola strapiena di persone. A quel punto, non potevo scegliere: restare il Libia significava morire, ma sapevo che anche partendo, in quelle condizioni, avrei rischiato la morte. Eppure c’era la speranza di una vita migliore e mi sono imbarcato. Il viaggio è durato quattro giorni, poi siamo stati recuperati in mare da un’imbarcazione portati in Sicilia. Era il 2014».

Un destino che accomuna un po’ tutti i profughi dell’Africa sub sahariana che fuggono dalla Libia, dopo essere stati imprigionati e dopo aver subito ogni tipo di tortura. Poi cos’è accaduto?

«Proprio così. Io sono stato trasferito a Bologna e da lì, poi, ho raggiunto Modena e, quindi, Carpi. Alla fine, ottenuti i documenti, nel 2015, non riuscendo a trovare lavoro, sono salito in Germania, dove ho studiato il tedesco e fatto qualche lavoro per circa due anni e mezzo. Dopo due anni e mezzo, ho deciso di rientrare in Italia, a Bolzano, dove ho la possibilità di continuare a parlare sia l’italiano che il tedesco».

Come ti trovi qui?

«Mi trovo bene. Ho svolto alcuni lavori e ora lavoro alla Lidl di Lagundo e, se serve, mi sposto anche in altri punti vendita della catena. Con i colleghi mi trovo davvero bene e, qui in città, ho trovato persone in gamba che sono diventate miei amici, che mi hanno aiutato tanto e mi hanno anche trovato una casa. Si chiamano Maria Teresa, Livio, Marzia, Paolo, Francesco e ce ne sono altri: sì, posso dire che adesso sono loro la mia famiglia».

E la famiglia in Gambia? Senti mamma e papà? Ti chiedono come va?

«Lì sento spesso, sì. Parlo di quello che faccio qui, del mio lavoro, e loro si raccomandando sempre di essere bravo, di non prendere cattive strade».

E spesso, chi è disperato, rischia di fare le decisioni sbagliate.

«Sì. A volte può essere difficile seguire sempre la retta via, ma bisogna essere forti. Altrimenti rischi di rovinare la tua vita».













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