Gli italiani in Venosta, prima le centrali e poi il marmo pregiato

Andrea Rossi presenta il suo libro «Acquabianca» Appuntamento con l’autore domani a Laives


di Giovanni Accardo


di Giovanni Accardo

In un momento storico in cui l’Italia (e l’Alto Adige) è terra di immigrazione europea ed extraeuropea, forse è il caso di ricordare le nostre migrazioni, come quella, tutta italiana, che interessò la val Venosta a partire dagli anni ’40, raccontata nel libro di Andrea Rossi, Acquabianca, pubblicato da Alpha Beta Edizioni e vincitore dell’ultima edizione del Premio Alto Adige “Autori da scoprire”.

Com’è nata l’idea di questo libro?

«È nato su commissione del dottor Wilfried Stimpfl del “Bildungsausschuss” di Lasa, che mi chiese di raccontare la storia della comunità italiana del suo paese. Chiarito con lui che non ero uno storico, ma, caso mai, un raccontatore di storie, ho accettato molto volentieri la proposta. E questo libro è il frutto di quel desiderio e di quella scommessa».

Diamo qualche coordinata storico-geografica: dove siamo e di quali anni si racconta?

«Lasa si trova esattamente a metà della Val Venosta: distante circa 40 km da Merano, tanto quanto dal confine austriaco del passo di Resia. Un paese che ha festeggiato nel 2009 i suoi 800 anni di storia, vissuti tutti intorno alla prima e grande vocazione contadina e alla presenza, nel ventre delle montagne che lo sovrastano, di un marmo pregiato e dalle caratteristiche particolarmente apprezzate, già noto alla fine del 1600. La vicenda narrata nel mio romanzo ha inizio nell’inverno del 1946 e si muove, inizialmente, all’interno del processo di elettrificazione dell’intera val Venosta, culminato con la creazione del lago artificiale di Resia. Anche a Lasa in quegli anni vengono costruite una condotta e una centrale, e questo chiama centinaia di lavoratori da tutte le parti di un’Italia uscita impoverita e affamata dal conflitto mondiale. Ma la fine dei lavori di costruzione della centrale riduce drasticamente la manodopera necessaria e allora occorre trovare un’altra porta da aprire: quella dell’estrazione del marmo, vicenda che il libro segue da quando il Südtirol diventa Alto Adige, fino alla fine degli anni ’60».

Nel romanzo non si parla molto dei rapporti tra italiani e tedeschi, c’è solo un accenno al tema della convivenza. Come mai?

«Nel libro cerco di farlo spiegare ad Emilio, il personaggio che più a lungo attraversa la storia della comunità italiana a Lasa e che un po’ la rappresenta. E lui se lo spiega così: “C’è un patto non scritto in questa terra; non lo trovi nei libri della legge e nei suoi codici, non l’hanno mai nemmeno stampato su un manifesto e incollato ai muri perché tutti potessero leggerlo. Ma ognuno l’ha imparato vivendo e lo osserva con scrupolo: non parlare di ciò che può dividere, stai al tuo posto quando gli altri piangono le loro disgrazie o festeggiano le loro gioie. Fai così, perché quelle disgrazie sono le tue gioie e quelle gioie sono le tue disgrazie. Lascia che passi quel momento, che sia come un tempo privato, una porta sbarrata. Stai a guardare, se vuoi, ma tira dritto.” È stato, insomma, un reciproco viversi accanto e non insieme, determinato da ragioni storiche e politiche chiare, ma difficili qui da sintetizzare, alle quali comunque nel libro cerco di fare più volte riferimento, anche criticamente. Che lo spunto poi a scrivere questo libro sia venuto dalla comunità tedesca di Lasa e che molti, tra le persone di lingua tedesca che lo hanno letto, mi confessino l’interesse e l’emozione per una storia che non conoscevano, penso testimoni nel modo migliore che quella distanza col tempo si è andata assottigliando».

Chi erano le canolare?

«Una delle tante figure di quello che oggi chiameremmo l’indotto. L’emigrazione italiana a Lasa fu sostanzialmente un fenomeno maschile, e questi uomini arrivavano pensando soltanto al lavoro, sprovvisti di tutto, portando con sé le poche cose che avevano. Giovani donne friulane, vestite di nero, con una gerla sulle spalle: queste erano le canolare e in quella gerla portavano vestiario, stoffe, fili da vendere a quegli uomini e, qualche volta, anche il regalo di un semplice sorriso, a ricordare quello delle loro donne».

Il marmo di Lasa piaceva molto agli americani.

«La grande scommessa degli anni ’20 del XX secolo di fare dell’impresa venostana il più grande e moderno comprensorio estrattivo del marmo in Europa, nasce come un sogno che vive, soprattutto, della concretezza e dei capitali americani e che muore perché quella concretezza svanisce dentro la grande bufera della crisi del 1929. Allo stesso modo, nel secondo dopoguerra, dopo aver attraversato la valle con i loro carri armati e le loro truppe, gli americani tornano con una commissione importante, quella del confezionamento di tutte le croci per i cimiteri militari americani in Europa, a cominciare da quello di Omaha Beach in Normandia. Una commessa da un lato vitale, perché seppe rianimare un’impresa uscita consumata e impoverita dalla guerra, ma anche fatale, perché la commessa assorbì totalmente per alcuni anni il lavoro della Lasa Marmo e la tolse dal mercato. Infatti si ritrovò di nuovo in difficoltà, a tal punto che il proprietario, l’Ente Tre Venezie, decise di metterla in vendita».

Negli anni ’60 arrivano la crisi e gli scioperi alla Lasa Marmo, con le mogli degli operai che vanno davanti agli uffici della direzione a sventolare le cambiali non pagate.

«È un’altra delle altalene su cui ha viaggiato la fortuna del marmo a Lasa. Giuseppe Sonzogno, imprenditore del settore a Trieste, nel 1962 acquista l’impresa dallo Stato per 600 milioni di lire di allora. La cessione avviene quasi di nascosto e questo crea immediata preoccupazione anche sul futuro della cava. Ma Sonzogno mette a tacere i sospetti con una conduzione iniziale piena di promesse e di entusiasmi, rifiutando fino alla fine qualsiasi aiuto pubblico nel momento della crisi, nascondendo la realtà dei fatti e rivendicando con orgoglio la propria capacità di uscirne. Cosa che, purtroppo, non gli riuscì. Nel 1978 la Lasa Marmo contava 60 dipendenti, mentre erano stati 227 nel 1964».

©RIPRODUZIONE RISERVATA













Altre notizie

Attualità