«Il bilinguismo formale è fallito»

Il sociologo Fazzi: il problema è che dopo 80 anni restiamo una società separata



BOLZANO. «Se si cerca di ragionare su questo disastro della non conoscenza dell'altra lingua mettendo la lente solo sulla scuola si rischia un clamoroso errore politico». E dove la si deve mettere allora, professor Fazzi? «Beh, su come si è ridotta la società». E lui, docente di Sociologia a Trento, bolzanino, "laico" osservatore dei nostri problemi, guarda soprattutto a una cosa: «Non ci sono luoghi di contatto, di incontro vero. Tutto è diviso. Dalle bocce alle bande. Quand'è che si sente il bisogno di imparare la lingua dell'altro? Quando lo si incontra spesso. Il popolo non vive insieme, lo fanno, a volte e in certi luoghi solo le élite. E le élite, di natura, sono indotte a guardare solo a se stesse, si specchiano nei loro successi personali».

Allora, professor Fazzi, sorpreso dai risultati usciti dalla ricerca dell'Eurac?

«No. Soltanto sconcertato».

E allora, da dove si comincia?

«Posso iniziare con una storiella che gira spesso tra i sociologi?».

Prego.

«È quella dell'isola di Pasqua. Ora è vuota o quasi. Migliaia di anni fa invece era piena di alberi e di vita. Quando sono arrivati gli uomini si sono messi ad adorare i loro dei e ne hanno fatto grandi statue. E poi hanno abbattuto gli alberi per fare i falò in loro onore. E così per secoli. Dalli e dalli hanno fatto dell'isola un deserto. Perché? Guardavano solo alle statue. Senza accorgersi di quello che succedeva intorno».

E noi che c'entriamo?

«Si chiama miopia istituzionale. Le élite politiche stanno bene, si guardano allo specchio e non vedono la terra che frana sotto i loro piedi».

I dati emersi dalla ricerca dell’Eurac sanciscono un fallimento?

«Ma non darei tutta la colpa alla scuola. Quando uno va all'estero perché impara subito una lingua?».

Perché ne ha bisogno?

«Anche. Ma soprattutto perché, a differenza dello studio scolastico, lavora con gli altri, fa sport con gli altri, legge i libri degli altri. Ci sta in mezzo. Qui un italiano medio non lo fa. E soprattutto non lo fa un tedesco medio».

Se la gente non si parla che succede?

«Che vive tra i suoi. Bisognerebbe invece indurre i contatti. Qui si frenano. Siamo l'unico territorio del mondo occidentale in cui dopo 80 anni non ci si capisce l'uno con l'altro. Dove ci si separa invece che mischiarsi».

Ma questo è proprio uno schema generale, no?

«Allora, il principio mondiale è questo: più ci si parla insieme più ci si capisce, no?».

In effetti...

«Invece Zelger (assessore provinciale Svp alla scuola e cultura tedesca negli anni Ottanta, ndr), aveva detto: più siamo separati più ci comprenderemo. Un principio contrario. Che esiste solo qui».

Ma non tutti lo seguono.

«In teoria no. In pratica, dalle gare di bocce, alle squadre di calcetto, alle biblioteche e via via fino alla scuola e agli asili la vita sociale è divisa. E se lo è nelle città, figurarsi nelle valli dove il gruppo tedesco è quasi solitario».

Ma non è che c'è scarso interesse per la cultura dell'altro?

«Lo scarso interesse alligna dove c'è scarso contatto. Perché far fatica quando ne posso fare a meno? Quando la vita mi offre poche occasioni di incontrare gli altri? Ripeto, per le elite è diverso. Ma per la gente, i più, è così. E gli studenti non fanno eccezione».

Ma l'insegnamento precoce ecc.?

«La scuola serve poco se è solo insegnamento. Se non ho un compagno di banco tedesco che fa battute diverse dalle mie, che ride per altre cose, guarda altre tv che ne so di lui? Vederlo solo al bar, e poche volte, non basta. Devo studiarci insieme, litigarci, viverci».

E quindi il problema non è solo la scuola separata...

«Anche. Ma soprattutto l'intera società. È un problema politico, non pedagogico. Ma le élite politiche lo accettano, lo danno per scontato».

E cosa ci vorrebbe invece?

«Coraggio. Rompere gli schemi. Il nostro schema. Si impara la lingua solo vivendo in società con l'altro. La politica deve dire: smettiamo di separare ogni cosa».

Ma qui vige la difesa dell'identità etnica.

«Ma così si punta a salvare la macrocultura italiana o tedesca».

Cosa intende?

«Una visione teorica della cultura identitaria e linguistica. Che resta fissa in alto ma poi si sfalda in basso. Faccio un esempio?»

Prego.

«Per assurdo questa società che dopo 80 anni è ancora divisa in due e non si capisce non fa l'interesse neanche di chi chiede l'autodeterminazione. Cioè dei più integralisti tra i tedeschi».

In che senso?

«L'indipendenza la devono chiedere tutti, o almeno quasi tutti. Ma se non si parlano i due gruppi, non si mischiano, non vedono il mondo come l'altro, se i vicini non si comprendono come la si fa a chiedere? Sarebbe , di nuovo, un élite a farlo. E sarebbe un insuccesso».

Dunque?

«Iniziare a togliere gli elementi di separazione dal basso, individuare luoghi dove partire. Che so le bocce, le bande, lo sport. Togliere alibi. Che gli italiani, i politici, vadano a Casies e i tedeschi in via Milano. Inizino loro con l'esempio. Scuola mista e società mista. Il bilinguismo formale non basta più. Altrimenti tra altri 80 anni saremo ancora qui».©RIPRODUZIONE RISERVATA













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