Il medico che ha adottato un villaggio 

Torello Monsagrati insieme ad un gruppo di amici ha finanziato la ricostruzione di un paesino distrutto dal terremoto



BOLZANO. Per arrivare a Phugmoche ci sono 320 chilometri, partendo da Katmandu. Ma non sono 320 chilometri come gli altri. Per i primi 300 serve la jeep e servono anche 12 ore perché in Nepal le strade sono così come sono. Poi arrivano gli ultimi 20, ai piedi delle montagne. Occorre lasciare la jeep e iniziare a camminare. «Ecco, questa è la parte più dura ma anche la più bella - dice Torello Monsagrati, medico a Fiè - perché si è in mezzo a cose che ci sono, sono lì. Ma ci vogliono otto ore...». Otto più dodici per 320 chilometri fanno 20 in tutto. Ma quando Monsagrati e gli altri di «Monsalvat for Asia» arrivano a Phugmoche il sorriso dei bambini, le strette di mano, le sciarpe votive con cui tutti sono avvolti in un turbine di parole e abbracci fa dimenticare la fatica, le strade e il sonno. Perché ci vanno? Innanzitutto c'è da dire da dove arrivano: quasi tutti dall'Alto Adige e da Bolzano. «Pochi ma buoni, buonissimi», dice di loro Monsagrati, che di nome fa Torello come accade che ti battezzino solo in Toscana e perché anche il nonno si chiamava così e non c'è altro da aggiungere. Lui è il presidente di "Monsalvat for Asia" e ha deciso di fondare l'associazione e di avviare questa avventura dopo che il Nepal, in quel terribile 2015, venne devastato dal più forte terremoto della sua storia.

Migliaia di morti, il piccolo (30 milioni di abitanti) paese in ginocchio. «Perché non aiutarli?». Già, perché no? Qualche telefonata, il giro degli amici, persone alcune già impegnate in gruppi benefici, un aiuto dalla Provincia, qualche sponsor ed ecco il miracolo: con i primi fondi, il primo viaggio verso Phugmoche, piccolo paese abbarbicato in alto in alto, verso il confine con la Cina e il Tibet scelto per la ragione che la scuola era crollata, di ospedali neanche parlarne. E poi il monastero. «Bellissimo, da togliere il fiato- ricorda Monsagrati - un dolore vederlo implodere sotto le scosse...».

E così "Monsalvat" ha ristrutturato il monastero, costruito un dormitorio per i bambini e sta progettando di portare su anche l'assistenza medica. E di farlo anche nella capitale. Perché lì, in Nepal, non esiste la possibilità di effettuare trapianti di midollo. Chi ne ha bisogno soffre e , senza nessun'altra possibilità , non sopravvive alla malattia. Andare in India costa troppo, le cure sul posto sono impossibili. «Per questo, anche per questo, stiamo programmando il prossimo viaggio, in settembre».

L'altra sera si sono ritrovati, quelli dell'impresa. Una decina gli iscritti ma tanti altri potenzialmente in grado di dare una mano. Col presidente Monsagrati, è stato confermato vice Alessandro Della Morte, segretario Maximin Liebl, revisore Hermann Thaler, Massimo Mascheroni il legale e poi tre consiglieri, Remo De Paola, Gilberto Reiserer e Karl Aichner. Si va dal farmacista, all'imprenditore edile, dal legale al commerciante d'arte. «Sapere che chi prima stava in baracche, con le case distrutte dal terremoto ora può dormire tra vere mura antisismiche apre il cuore»: Monsagrati parla dei bambini di Phugmoche. Ma tutti i suoi compagni d'avventura in Nepal hanno gli occhi pieni di luce anche quando raccontano dei monaci e del loro monastero restaurato. Oppure quando accennano all'impresa di ristrutturare il reparto di oncologia pediatrica nella capitale. Perché il Nepal li ha stregati. In realtà, per il presidente, l'attrazione era iniziata prima, durante un viaggio in Bhutan, altro piccolo paese confinante e dopo un incontro, unici occidentali, con i monaci e con il lama durante una cerimonia. Amore per la cultura e per la gente di lì. I templi lungo le strade, le stupe, gli altari tra le rocce. E poi una sorta di affinità elettiva con l'Alto Adige. Sono ambedue, la nostra provincia e il Tibet, piccoli territori. E poi ugualmente stretti dalle montagne. Ma poi c'è un'altra questione: il Nepal, e Phugmoche, sono paesi di convivenza, di melting pot etnico-religioso. «Ci sono hindù e buddisti - racconta Monsagrati - che pregano insieme, c'è tolleranza, le persone sono gentili e ospitali come tante genti di montagna. Come anche da noi, in passato. C'è una religiosità profonda, un rispetto per gli animali e la natura. Insomma...». Insomma, sono tutti innamorati. Ma si danno da fare. «Forse siamo ancora pochi ma bene così. Non voglio grandi associazioni con tanti che parlano e pochi che danno o fanno. Noi qui, siamo tutti operativi. E verifichiamo che fine fanno i soldi, uno ad uno». Ma un aiuto serve sempre. I fondi non sono mai abbastanza. E il prossimo viaggio incombe. Venti ore tra jeep e scarpe. «Beh, poi naturalmente c'è l'aereo...».

Ecco, appunto. (pc)















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