«La collina del vento», quando il privato diventa storia collettiva

Lo scrittore Carmine Abate presenta il suo romanzo «Aperitivi con l’autore», domani primo incontro a Laives


di Giovanni Accardo


di Giovanni Accardo

Il romanzo di Carmine Abate, La collina del vento (Mondadori), finalista al Premio Campiello, è l’epopea di un luogo, il Rossarco, in Calabria, da cui si diparte una vicenda che attraversa tutto il Novecento. Storia privata e collettiva, memoria di una famiglia, la famiglia Arcuri nel succedersi di quattro generazioni, e memoria di una nazione, con protagonisti che arrivano dal Trentino e dal Piemonte. I lettori dello scrittore calabrese trapiantato in Trentino ci troveranno alcuni dei suoi temi ricorrenti: il dialogo fra le generazioni, il recupero della memoria, la lotta contro i soprusi; ma anche, e soprattutto, l’amore e la difesa della propria terra, attraverso la descrizione di colori e profumi - il mare, la campagna, il cibo - che una lingua fortemente plastica restituisce nella loro concreta intensità. La collina del vento è sicuramente uno dei migliori romanzi di Carmine Abate, un libro estraneo alle mode e dove pulsa la vita vera, con personaggi fatti di carne e sangue.

Cominciamo dal Rossarco, la collina del vento dove si svolge la vicenda: che luogo è?

«È una delle colline che svettano tra lo Ionio e il mio paese d’origine, in Calabria. Fin da ragazzo ne ero affascinato per l’alone magico che la circonda, per il rosso dei fiori di sulla che la colorano in primavera e soprattutto per i tesori archeologici che sicuramente nasconde, trovandosi nel cuore dell’antica Magna Grecia. Dunque è un luogo reale e mitico ad un tempo, un luogo che mi ha dato la possibilità di raccontare non solo quello che si muove e vive in superficie ma anche l’invisibile, ciò che si nasconde nelle sue viscere».

Il Rossarco non è Hora, cioè non è il luogo di una comunità, come quella arbereshe raccontata in altri suoi libri, ma un luogo legato esclusivamente ad una famiglia, gli Arcuri, nel succedersi delle generazioni; in questo senso mi sembra il suo libro più autobiografico. È d’accordo?

«In ogni mio libro parto da qualche elemento autobiografico, per dare autenticità alla storia e per coinvolgere il lettore che spero colga l’urgenza, la necessità del racconto. In questo romanzo la parte più autobiografica è il rapporto padre-figlio che si svolge nei capitoletti al presente; autobiografica è anche la figura dell’io narrante che vive come me in Trentino e che per mantenere una promessa fatta al padre Michelangelo decide di ricostruire, strato dopo strato, la storia misteriosa della collina e quella della sua famiglia, svelando anche le verità più scomode. Per il resto, questo libro racconta un’autobiografia collettiva attraverso una famiglia esemplare, che resiste nell’arco di un secolo ai soprusi di ogni tipo».

Uno dei temi centrali del libro, tema che ritorna in tutti i suoi romanzi, è il rapporto tra le generazioni, in questo caso tra un figlio e un padre.

«Sì, mi piace raccontare il rapporto tra le generazioni, non solo quelli conflittuali ma anche quelli costruttivi, dove c’è dialogo, rispetto reciproco. Nel mio romanzo, i padri trasmettono ai figli i propri valori attraverso le storie vissute, passano il testimone che contiene il recupero della memoria familiare e collettiva. Ciò che spero di evitare è la nostalgia del passato, la sua retorica. La memoria ha un senso solo se serve a farci orientare meglio nel nostro difficile presente, a illuminarlo».

Uno dei protagonisti del romanzo è l’archeologo trentino Paolo Orsi: chi è e che cosa cerca in Calabria? Come mai questo personaggio è entrato nel romanzo?

«Da anni ero attratto da questo celebre archeologo di Rovereto, da quando nei primi anni Ottanta ho fatto la mia prima supplenza in Trentino nella scuola media a lui intitolata e ho scoperto che aveva condotto delle campagne di scavi a pochi chilometri dal mio paese, alla ricerca dell’antica cittadina magno greca di Krimisa e del tempio di Apollo Aleo. Era un personaggio affascinante, conosciuto purtroppo solo dagli addetti ai lavori, un archeologo straordinario a cui in particolare il Trentino, la Sicilia e la Calabria devono molto».

Il lavoro di Orsi sarà continuato dal piemontese Umberto Zanotti-Bianco, altro interessante personaggio.

«Zanotti-Bianco era archeologo, scrittore, meridionalista, filantropo, ambientalista della prima ora, patriota, costruttore di scuole e asili per i più poveri, senatore, grande amico di Paolo Orsi che aveva incontrato giovanissimo quando era sceso da Torino per aiutare i terremotati di Reggio e Messina. Di lui e di Orsi mi ha interessato soprattutto lo sguardo privo di pregiudizio con cui hanno guardato e raccontato il Sud: è uno sguardo che ho cercato di fare mio, per raccontare la complessità di un luogo, cogliendone non solo gli aspetti negativi ma anche quelli positivi, la ricchezza culturale, umana e paesaggistica».

Infatti, uno dei temi della sua scrittura è l’incontro tra le diverse culture, in questo romanzo tra la torinese Marisa e il calabrese Michelangelo: ritorna l’esperienza del vivere per addizione?

«Sì, è vero; e aggiungerei anche Rino, il professore calabrese sposato con una trentina che vive in Trentino ed evita le lamentele tipiche delle vecchie generazioni di emigranti. I miei personaggi non si piangono addosso, ma trasformano la loro esperienza in ricchezza, vivono appunto per addizione, valorizzando le antiche radici che sono affondate nella terra d’origine e le nuove che nascono sotto i loro piedi nelle terre in cui vivono, la Torinèsia in Calabria, il figlio Rino in Trentino».

Attraverso la storia della famiglia Arcuri racconta la storia della Calabria (e dell’Italia) nel corso del Novecento. Vorrei che rievocassi uno degli episodi narrati, i fatti di Melissa del 1949.

«Sì, la storia familiare incrocia la grande storia nazionale, la prima e la seconda guerra mondiale, il fascismo, la ricostruzione… E anche fatti meno conosciuti a livello nazionale, ma che sono stati fondamentali per le popolazioni del sud: a Melissa i contadini che avevano occupato le terre incolte di un barone latifondista furono massacrati dalla celere e grazie al loro sangue fu approvato la riforma agraria».

La famiglia Arcuri si caratterizza per la resistenza ad ogni forma di prepotenza, per la difesa della propria terra da coloro che vorrebbero sfruttarla anche a costo di rovinarla con pale eoliche o villaggi turistici.

«La resistenza della famiglia Arcuri è eroica, caparbia, coraggiosa. Del resto è una famiglia rara, come la rondine albina che compare nel libro. Raccontando la loro storia mi sono imbattuto in un profondo atto d’amore nei confronti della propria terra. Una terra ferita e bellissima, che va protetta da chi vuole distruggerla pensando solo alle proprie tasche».

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