IL LUTTO

Le parole di Endrigo per l’addio a Libby, "l'americana"

L’ultimo saluto alla pittrice americana che da decenni viveva a Bolzano. «Ora la città le renda omaggio» 



BOLZANO. Sergio Endrigo canta «Io che amo solo te». Frank Sinatra «The lady is a tramp»... E Poi Bob Dylan, Leonard Cohen, Tracy Chapman... Una playlist d’addio. Le sue canzoni preferite, i ricordi di chi le ha voluto bene, le lacrime cacciate in gola dal figlio Bartolomeo. Così, ieri, è stato il funerale di Libby Byers, «l’americana». Una semplice cerimonia laica nella Sala del commiato del cimitero. Musica e parole dal cuore.

Pittrice, artista, insegnante, Libby è morta a 73 anni dopo una lunga malattia. Era «l’americana», perché anche se viveva qui da 40 anni, i bolzanini non hanno smesso di chiamarla così. Forse per il suo accento mai perso. Forse per la sua bellezza da West Coast (era di Spokane, una piccola città nello stato di Washington). Forse perché, come è stato detto ieri - lei era comunque “diversa”. «Libby - ha ricordato emozionato Arnold Tribus, suo caro amico e curatore alla Galleria Spatia di via della Roggia - era arrivata a Pavia per studiare arte negli anni Sessanta. E qui, in Italia, la culla dell’arte, era rimasta. Era innamorata del nostro Paese, ma ha sempre mantenuto la sua identità, che emerge con forza nelle sue tele che guardano oltre, al mare e all’infinito. Purtroppo Bolzano non l’ha capita. Libby non ha raccolto il successo che meritava. È ora che la nostra città le riservi l’amore e l’attenzione che non ha avuto». Un auspicio condiviso anche da Albert Mayr–Nusser, che a lungo le è stato vicino: «Le sue opere vanno mostrate, la sua storia artistica deve essere raccontata». A Bolzano, Libby si era trasferita nel 1974. «Faceva parte - ha detto ancora Tribus - di quel gruppo di giovani artisti che mangiava e respirava arte giorno e notte. Discutevano con passione e creavano». Come Pierina Rizzardi, che, ieri, ha ricordato le «cene colorate». Serate nello studio dell’uno o dell’altra. La cena azzurra, la cena gialla, la cena rossa... Tutto doveva avere quel colore. I vestiti, i cibi, la tavola. «E lei ci batteva sempre perché aveva i colori “made in Usa” che potevano essere usati anche per gli alimenti. Per quanto vivesse ormai qui, lei rimaneva profondamente, intimamente americana. Anche nella sua arte, fondeva le cose che aveva visto al di qua e al di là dell’oceano...». Non era una donna facile Libby. Per niente incline al compromesso, rigorosa, capace di litigate furiose. Ma poi tutto veniva dimenticato e si ricominciava come niente fosse. La sua casa “storica” di via dei Vanga era sempre aperta a tutti. Il suo atelier era pieno di luce, tele e colori. Una donna che difendeva le cose in cui credeva. E a cui devono molto anche generazioni di studenti: Libby Byers ha insegnato arte nelle scuole superiori (gli ultimi anni al Toniolo) con la stessa identica passione con cui dipingeva. «Ci ha fatto capire l’importanza della luce e del colore. Con una sensibilità davvero rara. E di questo le saremo sempre grati».

* * *Venerdì 19 gennaio saranno inaugurate due mostre di Libby Byers: alle ore 17.30 allo Spazio Saxo (via Rosmini 47) e alle 19.30 al «Bar Regina» (v.le Venezia 59)

 













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