«Lingue, noi ladini bravi perché una non ci basta» 

Al filologo Paul Videsott (preside alla Lub) il Premio scientifico dell’Alto Adige «Il modello ladino nella scuola del gruppo italiano? Non ora, non è la soluzione»



BOLZANO. «Ho pensato: l'altra volta ha vinto uno scienziato che compie ricerche sul cancro. Io che c'entro, che leggo codici medievali? Che c'entro col "premio scientifico dell'Alto Adige"...». E invece no. C'entra, Paul Videsott. E non legge solo i codici e le vecchie scritture. Certo, la sua passione sono le lingue e soprattutto quei percorsi dell'antico italiano e dell'antico francese in cui, tra il XII e il XVI secolo, i due grandi idiomi letterari europei diventano anche «lingue standard», unificano le loro parlate non solo nelle letterature. Sarà perché è un ladino, Videsott. Che prova a identificare quello stesso percorso oggi, per la sua lingua madre. Ed è nato in quella triangolazione linguistica che definisce «la nostra ricchezza, la ricchezza di questa terra». Insomma, è un umanista il vincitore dell'edizione 2018 del premio che, fin qui, ha indicato menti legate alla tecnologia più che alla lettere. Sarà che sta costruendo un «Thesaurus», un dizionario online della lingua ladina, ha costruito il Corpus del ladino letterario, che dirige la facoltà di Scienze della formazione della Lub, dove è professore di filologia romanza, che è tra i maggiori esperti internazionali di linguistica. Sarà che le lettere che studia Paul Videsott sono quella "tecnologia" attraverso cui si formano le teste delle persone, la cultura e le stesse società. E che tutto tiene insieme.

Ieri al «Noi», tra i volti sorridenti dei suoi genitori e quelli forse ancor più estasiati di Florian Mussner, anch'egli ladinissimo assessore che sostituiva Kompatscher, si è insistito sulla «valenza internazionale del premio che indica personalità che si sono distinte nel mondo ma portando con loro anche il senso di questo territorio». Ed è fortunato Videsott, perché è nato qui, ma pure in una valle in cui, pur tenendosi stretta la propria identità, le genti si muovono con una naturalezza invidiabile anche tra italiano e tedesco. Il Premio scientifico dell’Alto Adige ogni due anni insignisce studiosi di livello internazionale con un riconoscimento che premia anche l’impegno a fare dell’Alto Adige il proprio baricentro anche professionale.

Professore, perché i ladini sono così agili nelle lingue?

«Forse la ragione è nell'essere una piccola minoranza. E di essere dentro una lingua e una cultura che "non ci basta”».

Che intende dire?

«Che una lingua più diffusa consente di farsela bastare. Puoi leggere, vedere film, ascoltare musica in un idioma molto più parlato. Noi no. Per allargare lo sguardo dobbiamo essere ladini ma anche aprirci all'italiano e al tedesco. Ma poi c'è il rovescio. E' proprio il fatto di vivere tra due grandi lingue storiche che ci consente di valorizzarci. Mi spiego: i ladini del Friuli hanno solo l'italiano davanti. E magari ci si riversano per comodità. Lo stesso i ladini dei Grigioni col tedesco. Noi qui, invece, è come se ci sostenessimo tra questi due grandi vasi linguistici e culturali».

Il mondo italiano ha difficoltà ad imparare le lingue. Il tedesco resta ostico anche nelle scuole, nonostante le tante ore. Molti politici dicono: dateci il modello ladino...

«Negli ultimi anni la scuola italiana ha fatto enormi progressi. L'immersione, gli scambi, gli aumenti delle ore di lezione. Una situazione non paragonabile col passato. Ma, lo dico con sincerità, la soluzione non è il "modello ladino". Non ora».

Come mai non lo è?

«Il nostro modello rispecchia la necessità di una intera popolazione. Come ho detto, un ladino non si basta perché la sua è una lingua minoritaria. E' naturalmente portato a conoscere i codici degli altri, della maggioranza. Anche per vivere. Gli italiani no. Hanno alle spalle un enorme universo culturale, una grande letteratura, l'arte, il cinema. Ecco, proprio per questo, manca la spinta di necessità. Qualcuno insomma, "si basta". C'è la voglia di imparare ma non l'assoluta necessità. Si avverte».

Vuol dire che non è sufficiente un modello standard per appropriarsi dell'altra lingua, serve una vera motivazione di fondo, dal basso?

«E' così. Nel mondo tedesco questa motivazione ha un substrato generazionale, quello dei nonni e dei padri dentro lo Stato italiano. Il modello la scuola italiana se lo sta costruendo in base alle sue necessità. Penso che le cose andranno sempre meglio».

Quali sono le sue ultime "scoperte", visto che qui si premiano scienziati?

«Beh, sull'antico francese. Dell'italiano si sa che la lingua standard è nata nella letteratura. Quella francese si pensava fosse nata a Parigi, nel medioevo, per l'azione naturale e combinata dall'arrivo di genti dal resto del Paese che unificarono i loro idiomi e dialetti. Invece no, anche in questo caso sono contati i libri prima che le parlate. E poi le ricerche sull'italiano del Nord. Sulla crescita di quello standard avvenuta soprattutto a Milano e sulla resistenza dell'idioma locale, invece, a Venezia».

E il ladino, troppe varianti?

«Anche qui, serviranno i libri». (p.c.)

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