Noi siamo bilingui

di Paolo Valente


Paolo Valente


L’intrinseca ambiguità e dunque debolezza dell’accordo sulla toponomastica è stata sottolineata da molti, pressoché da tutti i commentatori. Non è escluso in modo assoluto che a quel protocollo possa anche seguire un’evoluzione che vada nel senso del reciproco rispetto anziché del compromesso al ribasso. Tuttavia viste le premesse è più facile pronosticare un nuovo nulla di fatto. Tre punti di critica vanno aggiunti a quelli proposti da altri. Il primo concerne l’aggettivo “storico” attribuito in questo caso ai nomi.
Normalmente con questo concetto (in tedesco "geschichtlich gewachsen") s'intende dire che un toponimo arriva a noi dopo una naturale evoluzione attraverso il tempo. Spesso la matrice di un nome è antica di millenni. A volte risale a secoli addietro, in altri casi è più recente, esiste da pochi decenni o da qualche anno. Come quando, in modo sempre più o meno arbitrario, si tiene a battesimo un nuovo quartiere che prima non c'era. In ogni caso c'è sempre un momento in cui il nome viene dato, cui segue un'evoluzione storica durante la quale il toponimo subisce variazioni (passando ad esempio da un contesto linguistico all'altro) oppure rimane così com'è. Ma non è questo che è successo anche con i vituperati toponimi italiani? Sono nati, figli di eventi storici che possono essere giudicati ma non cancellati, e sono entrati nell'uso. Sono diventati "storia" e come tali esistono nel nostro presente. Dire che essi non siano "storici" significa arrogarsi il diritto di riscrivere la storia, esercizio praticato volentieri dalle più sciocche e feroci dittature. Una volta accolto questo ragionamento va da sé che i nomi ("fermo restando l'obbligo della bilinguità" ex art. 8 dello statuto) possono anche "evolvere". Da una "Vetta d'Italia" (nome dal retroterra ideologico) può scaturire una"Vetta d'Europa" (nome dal tono più ideale e dialogico).
Il secondo punto. La creazione di una commissione "paritetica" governo-provincia è un fatto che lancia un messaggio controverso. come dire che il governo (lo stato) ha il compito di difendere istituzionalmente l'"italianità", la provincia invece il "Deutschtum" di questa terra. Oppure che il gruppo italiano debba ricercare a Roma i propri tutori, quello tedesco invece a Bolzano, palazzo Widmann. Non è certo questo lo spirito dell'autonomia che ha sì l'obiettivo di garantire i diritti delle minoranze linguistiche ma nell'ottica del rispetto delle prerogative di tutti coloro che abitano questa terra. In altri termini: il rispetto dei diritti delle minoranze e le garanzie per una pacifica convivenza sono compito istituzionale sia del governo che della provincia, perché ad entrambi, pur su piani diversi, compete la tutela del bene comune, ovvero del bene di tutti e di ciascuno. Se passa il principio che le istituzioni difendono ognuna una parte, allora ogni iniziativa, ogni accordo risulteranno sempre ambigui e mai risolutivi.
Terzo punto. I toponimi sono non solo storia ma anche cultura. Quelli di cui si questiona appartengono alla cultura del gruppo italiano che vive in Sudtirolo. Dei sudtirolesi/altoatesini di lingua italiana. stato chiesto al gruppo italiano cosa pensa delle soluzioni prospettate? O è previsto che lo stato e la provincia entrino in casa di qualcuno e possano dettar legge rispetto ai nomi, ai soprannomi, alle abitudini, al menù, agli orari di una famiglia? Così senza chiedere, perché loro si sono messi d'accordo? Trattare le persone da sudditi non pare il metodo appropriato per contribuire alla creazione di quell'atteggiamento di cittadinanza consapevole e responsabile della cui mancanza tanto soffre l'attuale situazione politica.
Il vero grande problema di questa terra resta la mancanza di una visione plurale, plurilingue e pluriculturale proiettata nel futuro (la sola che può dare senso duraturo all'autonomia) e di qualcuno che la metta onestamente (e intelligentemente) in pratica.













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