Olimpia uccisa a 3 anni «Non posso perdonare» 

Il cugino Cesare Finzi: «Tradita dai vicini di casa, morta ad Auschwitz»



BOLZANO. Erano due cuginetti Cesare Finzi e Olimpia Carpi. Uno a Ferrara e l'altra a Bolzano. Oggi Olimpia avrebbe qualche anno meno di lui se a tre anni non fosse finita ad Auschwitz. Quando venne arrestata a casa sua, in centro, vicino al municipio dopo la delazione di un vicino di casa che aveva detto ai nazisti della Sod «In quell'appartamento c'è una famiglia ebrea...», Olimpia aveva compiuto da poco tre anni.

Era il 16 settembre del '43. Più o meno in quegli stessi giorni, a Ferrara, suo cugino Cesare, neanche 12 anni, iniziava il suo calvario, fuggendo di casa in casa, da una cantina di un conoscente a Ravenna alle campagne romagnole. Per mesi, anni. Inseguito con mamma e papà dal fantasma della deportazione. «Dopo l'8 settembre erano arrivati i tedeschi - dice - e allora tutto cambiò...». Lo scrisse anni dopo in un libro, dal titolo “Qualcuno si è salvato ma niente sarà più come prima”. Ecco, lui ora è qui, nella città di Olimpia a incontrare i ragazzi delle scuole, a Bolzano e a Merano, da ieri. Salvo. Lei no, ma la porta sempre con se. Cosa le fa paura, dottore? (Cesare Finzi è stato primario di cardiologia a Faenza ndr): «Dopo quello che ho passato... direi l'indifferenza. Ecco, vedere che tutto quello che è accaduto può essere dimenticato. Oppure minimizzato, considerato quasi un incidente». È un uomo minuto e buono Cesare Finzi. Non c'è un accenno di odio, mai, in quello che dice. Mai una parola di vendetta. Ma poi uno prova a chiedere: «Vuole perdonare chi, qui a Bolzano, denunciò la famiglia dei suoi zii, Olimpia, Renzo Carpi, Lucia Rimini?. I parenti di quelle persone si sentono responsabili della denuncia che fece il loro padre o nonno, e che portò alla morte dei Carpi. Loro lo hanno chiesto...». Allora lui alza la testa, con gli occhi limpidi e dice: «Come faccio a perdonare? Io perdono, ho perdonato chi ha fatto del male a me. E se perdono anche loro, che non conosco, che succede? Cambia qualcosa? Non tocca a me assolvere chi ha fatto del male agli altri. Non sono un sacerdote. Spetterà a loro farlo...». Magari in un'altra vita. E alza gli occhi. Forse ha in mente la foto ella cugina, l'ultima, vestito bianco e faccina allegra. A volte si commuove. «Beh sì, mi succede quando mi chiedono e io inizio a raccontare». La sua lezione oggi? «La vita va avanti. Deve andare avanti». Dopo le scuole, ieri in sera, si è recato con l'avvocato Loner e la storica Sabine Mayr, al circolo Pd Don Bosco di via Resia. In effetti quella di Cesare Moise Finzi è stata una vita a capitoli. Dal bianco al nero. Bella fino al 3 settembre del 1938. «Quella mattina - ricorda - ero uscito per comprare il Corriere a papà. Eravamo a Ferrara. Lessi il titolo in prima pagina mentre lo portavo a casa. Diceva che da adesso in poi gli insegnanti e gli scolari ebrei non potevano più frequentare le scuole pubbliche». Cosa volesse dire non gli era molto chiaro. Ma capì che era una cosa che gli avrebbe cambiato la vita, guardando il cambiamento di espressione nei visi di suo padre e sua madre. Non li aveva mai visti così. Il giorno prima Mussolini e il re avevano emanato le leggi razziali. E tutti gli ebrei italiani, ricchi e poveri, generali e avvocati, operai e insegnanti, fascisti e no finirono per essere cittadini senza diritti. Ma poi la vita andò avanti. Apparentemente ancora placida, per un ragazzino di quell'età. A Ferrara la comunità ebraica, prima della guerra e dello sterminio, era molto numerosa per cui non fu difficile per le famiglie israelite organizzare una scuola privata. «Frequentai quelle aule» ricorda. Poi la guerra. Poi, soprattutto , l'armistizio, e l'8 settembre. «Quando arrivarono i tedeschi ogni scelta per noi era diventata una scelta tra la vita e la morte». I primi giorni la sua famiglia scappò a Ravenna a casa di amici. C'era il coprifuoco, la sera, così rischiando la vita gli uni e gli altri, decisero di far restare lì per una notte i Finzi. Fu la prima di tante notti in giro per rifugi di fortuna, letti di amici generosi, contadini di buon cuore. Per fortuna, a differenza della povera Olimpia a Bolzano, nessuno li denunciò ai tedeschi. «Restammo nascosti fino alla fine della guerra...». Fuori dall'incubo, giunsero nuovi studi, l'università, la laurea in medicina, il lavoro. «Il razzismo? Più di quello mi fa paura l'indifferenza della gente. Il continuo banalizzare ciò che è accaduto». Che è accaduto anche che qui, a Bolzano, dove una bimba fu arrestata e, neppure sei mesi morì ad Auschwitz. Era nata il 27 marzo del '40 , venne uccisa il 7 marzo del '44. Aveva una lettera di matricola sul braccino: "S". (pc)













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Valeria Frangipane

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