Picchiata dal compagno «Sono viva per miracolo» 

Il racconto di una bolzanina vittima di un uomo conosciuto sui social


di Antonella Mattioli


BOLZANO. «Se quel giorno invece di essere in un ristorante fossimo stati a casa, adesso non sarei qui. Nessuno avrebbe potuto aiutarmi e mi avrebbe ammazzata di botte. Il motivo scatenante dell’ennesima aggressione? La telefonata di un’amica e il sospetto che si trattasse di un uomo». Sono passati alcuni mesi dal giorno in cui il compagno che diceva di amarla tantissimo l’ha picchiata: adesso Maria (il nome è di fantasia per tutelare la privacy), una donna bolzanina che dimostra meno dei suoi 40 anni, comincia a riprendersi in mano la vita.

«Anche se ogni tanto torna la paura di ritrovarmelo davanti mentre controlla tutto quello che faccio e pretende di interpretare ogni mio pensiero».

Nella speranza che possa contribuire ad aiutare quante dovessero trovarsi a vivere quest’inferno, raccontiamo la storia di Maria - nella settimana ricca di eventi di sensibilizzazione che si concluderà domenica 25 novembre con la corsa cittadina contro la violenza sulle donne - terribilmente simile a quella di altre mogli, compagne, fidanzate vittime della violenza di chi prima le insulta, le umilia, le picchia, accusandole di chissà quali tradimenti e un attimo dopo giura loro amore eterno.

L’incontro sui social. «Tutto - racconta - è iniziato circa un anno e mezzo fa quando, sui social, ho conosciuto quell’uomo dai modi gentili e premurosi. Abbiamo cominciato a frequentarci e mi sono sempre più convinta che fosse la persona giusta per me: molto galante e pieno di attenzioni. Quello che cercavo per cominciare una vita assieme. Mi ritenevo fortunata».

Poi però, lentamente, qualcosa comincia a cambiare: «Non era più la persona che avevo conosciuto solo pochi mesi prima. Era geloso. Sempre più geloso: controllava tutto quello che facevo. Voleva sapere dove andavo, con chi parlavo al telefono, chi mi inviava whatsapp. Un’ossessione: quel rapporto stava diventando come una prigione. Mi mandava decine di messaggi al giorno e poi telefonate. Guai se trovava il cellulare occupato, perché partivano gli insulti e le minacce».

Maria comincia ad allontanarsi dagli amici e dai genitori. Tutti cercano di farle capire che deve assolutamente chiudere quel rapporto malato prima che sia troppo tardi.

«Ma io ero combattuta: da una parte speravo che finisse tutto, dall’altra avevo paura di restare senza quell’uomo che, seppur a suo modo, giurava di volermi bene e di non poter vivere senza di me».

La paura. I genitori temono il peggio: ogni mattina quando aprono il giornale hanno paura di trovare la foto della figlia tra le vittime di femminicidio.

Il padre, ad un certo punto, si arrende e decide di non parlarle più, nella speranza che capisca che, se continua la storia con quell’uomo, firmerà la sua condanna a morte.

La madre invece non molla: «Se non rispondevo al telefono, mi veniva a cercare, mi fermava per strada nel disperato tentativo di convincermi a lasciarlo. Lo faceva per il mio bene, peccato che l’effetto fosse esattamente il contrario. Tanto che ogni volta finiva con una lite. Era riuscito a convincermi che tutti, per primi i miei genitori, ce l’avessero con me». La situazione peggiora rapidamente: dopo gli insulti e le umiliazioni arrivano le botte.

Le violenze. «Mi prendeva per i capelli; mi stringeva le mani al collo: minacciava di ammazzarmi. Poi magari non si faceva più sentire per una-due settimane. E la cosa assurda è che mentre all’inizio mi sentivo finalmente libera; dopo un po’ quel “silenzio” cominciava a pesarmi. È una cosa folle da dire, eppure mi mancava».

Tra mille dubbi e altrettante paure, un giorno di autunno dello scorso anno suona alla porta del Centro antiviolenza gestito della Gea (linea d’emergenza-numero verde 24 ore su 24: 800 27 64 33; centro d’ascolto 0471-513399).

La Gea. «Ho cominciato a raccontare la mia storia e mentre lo facevo mi chiedevo cosa ci facessi io in quel posto. È vero che il mio compagno era geloso in maniera morbosa, in fondo però mi voleva bene».

Ciononostante Maria continua a tornare al Centro una volta alla settimana: parla con le operatrici e con la psicologa. «Qui ho trovato un ambiente “caldo” disposto ad ascoltare e aiutare senza mai giudicare».

Le cose intanto a casa vanno sempre peggio: «Mi svegliava nel cuore della notte con una raffica di telefonate e se non rispondevo arrivava sotto casa e si attaccava al campanello».

La situazione sta superando il limite di non ritorno, Maria finalmente si convince che bisogna fare il grande passo, ovvero andare in Questura a denunciare le persecuzioni. Lo fa contro voglia ma lo fa. Pochi giorni dopo, quando il giudice non ha ancora emesso il divieto di avvicinamento, lui torna alla carica: «Mi ha chiesto di vederci, per chiarirci e rimettere assieme i pezzi della nostra storia. Sapevo perfettamente che era tutto finito, ma ho accettato quell’ultimo incontro. È stato un gravissimo errore, ho rischiato veramente di farmi ammazzare quando ha cominciato a pestarmi. Adesso che è tutto è finito, anche se ci sarà prossimamente il processo, alle donne che si trovano a vivere un inferno simile, dico di farsi aiutare. Da sole non ce la possiamo fare ad uscire dal tunnel delle persecuzioni che sono fisiche e soprattutto psicologiche».

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