BOLZANO

Via Renon, il disagio del “quadrilatero” di Bolzano

Dalla Stazione fino a via Brennero concentrate strutture per immigrati e tossicodipendenti. I residenti: convivenza difficile


di Antonella Mattioli


BOLZANO. Da una parte piazza Walther, i Portici, negozi eleganti, case belle e costose; poco più in là l’asse di via Renon, via Garibaldi, i giardini della Stazione, via Perathoner, poi dentro fino in via Crispi e via Brennero, dove ci sono i palazzi della Provincia e la sede della Svp: qui sono concentrati i servizi che cercano di aiutare profughi, senzatetto, nomadi, tossicodipendenti. In parte ci sono sempre stati, ma rispetto al passato sono aumentati a dismisura gli utenti. E ciò è all’origine delle tensioni, sempre più frequenti, con i residenti, che sentono la loro sicurezza minacciata. I gestori di bar, ristoranti, negozi vedono invece minacciato il loro giro d’affari e ciascuno, a suo modo, ha imparato a difendersi. Al civico 31 di via Renon, al primo piano di Casa Forni c’è l’Sis, sigla di Servizio integrazione sociale che dipende dall’Azienda dei servizi sociali. Negli anni gli utenti sono aumentati e soprattutto è cambiata il tipo di utenza: ai nomadi si sono aggiunti, diventando la maggioranza, profughi e persone senza fissa dimora. Ogni giorno, fin dal mattino presto, c’è la coda di disperati che aspettano sulle scale e in un corridoio che è un budello. Dopo che alcune settimane, un giovane senza fissa dimora originario del Mali aveva dato in escandescenza, per essersi visto negare un sussidio in denaro e una sistemazione in qualche struttura, i dipendenti hanno paura e hanno sollecitato l’Assb ad intervenire, riorganizzando almeno gli spazi. Per il momento si tutelano come possono: nella porta a vetri d’ingresso c’è una finestrella che evita il contatto diretto con gli utenti.

Ieri, ad aspettare di parlare con le addette al servizio, c’era Paolo Fabbrini, volontario bolzanino all’interno dell’ ex Hotel Alpi, arrivato per accompagnare un giovane senegalese in cerca di un letto: «L’errore di fondo è quello di pensare che questa sia un’emergenza. Non è così. È una nuova realtà con cui bisogna fare i conti. All’Alpi ci sono 140-160 persone, troppe per poter fare un lavoro di integrazione. La conseguenza è che poi nascono i problemi con i bolzanini che sviluppano un sentimento di rifiuto. Invece i profughi che a piccoli gruppi sono stati dislocati nei diversi centri dell’Alto Adige, superata l’iniziale diffidenza, si stanno inserendo benissimo e hanno più facilità anche a trovare lavoro».

Poco più in là, al civico 49 di via Renon, un cartello annuncia che il lunedì mattina la San Vincenzo di lingua tedesca distribuisce abbigliamento per le donne; mercoledì e venerdì pomeriggio tocca agli uomini: anche qui c’è sempre la coda di gente che ha bisogno.

Tra i due servizi c’è il bar Mary, gestito da un paio d’anni da Corinna Brugger, una giovane dai modi spicci: «Qui drogati, spacciatori e gente che fa casino non ne voglio. Prima glielo dico e, se non capiscono, li prendo per un braccio e li butto fuori. Diventa più problematico se il cliente che dà fastidio è un musulmano: loro non si fanno dare ordini dalle donne. Allora chiedo a qualche uomo di darmi man forte».

Anche Manuela Filippi, che gestisce il negozietto di giornali e tabacchi davanti alla stazione, è altrettanto tosta: è stata aggredita tre volte, ma non ha paura. «Altrimenti - dice - non vivi più. Qui fuori bivaccano nei giardini: molti ci dormono pure. Polizia e carabinieri passano frequentemente, ma anche loro fanno quello che possono».

Nonostante la zona non sia facile Drini Qordja, albanese, e sua moglie Irena, due mesi fa hanno deciso di aprire proprio nei giardini della stazione un baracchino di pizze, kebab, würstel, con annessi tavolini.

«Gli affari - ammette - vanno meglio del previsto. Il segreto sta nell’essere chiari fin dall’inizio: niente casini. E non voglio che nessuno bivacchi sui miei tavolini. Altrimenti la clientela se ne va altrove e questo non posso permettermelo».

Chi invece non può scegliersi gli utenti è Patrizia Federer, responsabile del Binario 7, il servizio a bassa soglia, aperto agli inizi degli anni Duemila e gestito dalla Caritas, al civico 4 di via Garibaldi .

«A noi - spiega - si rivolgono in media 45-50 persone al giorno: quasi tutti altoatesini che in comune hanno problemi di tossicodipendenza. Qui trovano docce, lavatrici, servizio mensa oltre a qualcuno con cui scambiare due chiacchiere. La droga la comprano nei giardini della stazione, dove sono aumentati gli spacciatori che a loro volta sono anche consumatori. Il numero dei nostri utenti invece è più o meno costante, mentre si è abbassata in maniera preoccupante l’età dei tossicodipendenti: se fino a qualche anno fa andavano dai 40 in su, adesso abbiamo utenti di 18 anni che si fanno di eroina. Non iniettata ma fumata. S’illudono che sia meno pericolosa».

 

 

 

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