Così si squarcia il velo sui gesti “sottovalutati” della resistenza ebraica 

Il presidente del Centro di Documentazione Contemporanea analizzerà una realtà trascurata del 2° conflitto mondiale 


di Andrea Felis


Una bambina piccola era solita andare a scuola – si era poco prima della Grande Guerra, nella Germania del nord – accompagnata dall’insegnamento della madre, una donna sanguigna e passionale: «se qualcuno farà apprezzamenti sul tuo essere ebrea, fosse anche il maestro oppure uno dei tuoi compagni, tu alzati, esci e fammi chiamare dal direttore. Io arriverò subito». La bambina si mantenne tutta la vita così fedele alla promessa fatta alla madre, da farne una sorta di nucleo segreto della sua non breve esistenza, un gioiello così ben celato da restare la fonte segreta di una luce pubblica così limpida e brillante come poche, nel secolo passato. La piccola si chiamava Hannah Arendt, e quell’ammaestramento di coraggio civile e di capacità di dire di no, di non abbassare la testa di fronte all’ingiuria, costituì l’asse portante della sua vita culturale, civile, del suo impegno nel mondo. La bambina che sapeva dire di no ha lasciato una testimonianza di coraggio, e di sfida non eroica ma semplice, cosciente, sfidando la più terribile delle epoche recenti, quella dei totalitarismi imperanti fra Europa e Oriente; ma ha anche contribuito non poco a creare uno sguardo diverso sulla cultura e l’identità ebraica, come pochi altri pensatori sono riusciti a fare. Il penultimo incontro della stagione del Cafè Philosophique, domani al Centro Trevi di via Cappuccini a Bolzano, verte proprio sulla complessa questione del rapporto che lega la lunga storia dell’ebraismo alla cultura e alla società occidentale, letta da una prospettiva piuttosto particolare, quella della ribellione e dell’obbedienza, nel contesto delle vicende della seconda guerra mondiale (“Obbedienza e ribellione: forme della resistenza ebraica nel secondo conflitto mondiale”). Ospite prestigioso della serata di domani (ore 18.30) sarà Gadi Luzzatto Voghera, una delle figure più importanti fra le voci ebraiche contemporanee, non solo italiane, presidente del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea a Milano.

Docente presso la Boston University nella sede padovana, discendente diretto di quel Samuel David Luzzatto che portò a metà Ottocento la ventata dell’illuminismo riformatore dentro la storia dell’ebraismo italiano settentrionale, Luzzatto Voghera ha una storia trentennale da protagonista del dibattito interno alla articolata realtà dell’ebraismo italiano, e da storico contemporaneo serio e senza compromessi non ha mai esitato a rendere esplicite alcune letture forti, relative a tagli critici che sono spesso risultati non facilmente digeribili per tanta parte della cultura nazionale. Tra i primi a riconoscere caratteri di una persistente istanza antiebraica anche nella cultura della sinistra radicale italiana, il docente, scrittore e presidente del CDEC domani al Trevi sottoporrà all’analisi storica, e della critica culturale, un cliché che ha aleggiato per molto tempo – e talvolta ritorna come un refrain – nel giudizio diffuso sulla presunta “passività” ebraica di fronte al massacro perpetrato dal nazifascismo. Anche all’interno della cultura antifascista del Novecento è prevalsa per lungo tempo una vulgata che vedeva quasi una sorta di “sottomissione” fatalistica e passiva delle comunità ebraiche sottoposte alla deprivazione, alla repressione e infine alla distruzione, perpetrate da anonimi aguzzini.

Il fatto evidente di una partecipazione ebraica, in prima fila e attiva, alla resistenza armata contro le politiche di occupazione, distruzione e annientamento operate dal nazismo tedesco e dai suoi solerti collaboratori europei, veniva rubricata sotto l’apparentamento ideologico dei resistenti (antifascisti in senso generico; o comunisti, socialisti ecc.), ma non riconosciuto come fenomeno in sé. Solo alcuni nomi bastano a testimoniare l’enorme apporto ebraico alla resistenza al nazifascismo: possiamo citare ad esempio quelli di Marek Edelman e di Mordechai Anielewicz, o ancora di Leone Ginzburg, Eugenio Colorni, Vittorio Foa, Leo Valiani, Emanuele Artom, Raffaele Cantoni, fra i leader della resistenza in Italia; o il caso del giovane Primo Levi, arrestato come partigiano e poi deportato ad Auschwitz, coscienza critica forse unica, nel panorama nazionale, nella sua capacità di parlare a tutti.

Rimane la domanda sul perché si sia fissata invece una immagine di passiva rassegnazione, che molto spesso ha caratterizzato la ricostruzione della memoria nel secondo Dopoguerra in Italia.

Da un lato, forse è possibile azzardare, si potrebbe definire una caso di “falsa coscienza”, un travestimento anche involontario della memoria collettiva, tesa ad accreditare un volto unitario e coeso della resistenza antifascista italiana, che potesse in un colpo solo cancellare le responsabilità effettive del consenso di massa nei confronti del regime liberticida fascista, consegnare una immagine non conflittuale della resistenza, affidare alle anime ideologiche dei partiti nati dalla dissoluzione del fascismo la palma di soli eredi legittimi dei valori antifascisti; il tutto, in chiave nazional - popolare.

Ma probabilmente è anche possibile, dall’altro lato , riconoscere qualcosa di più sottilmente ambiguo, dietro l’impedimento a riconoscere un ruolo protagonistico all’ebraismo, italiano ed europeo, nella lotta antifascista: e risale sia alla specifica difficoltà di tanta parte della cultura italiana – anche degli storici – di comprendere la specificità dell’appartenenza ebraica nel contesto nazionale; ma anche alla persistenza di un pregiudizio diffuso, alimentato e fatto crescere fra le giovani generazioni negli anni del fascismo imperante, in particolare dopo il 1938 e le leggi razziali.

Una “diversità ontologica” e caratteriale dell’ebreo, pur senza il riconoscimento della sua effettiva specificità, culturale, religiosa e di tradizioni. Una persistenza pregiudiziale frutto anch’essa di una tradizione, plurale e del tutto moderna: quella erede dei dibattiti razziali ottocenteschi, delle influenze culturali dei diversi profeti dell’antisemitismo del secolo diciannovesimo, autentica fucina di stereotipi e di tassonomie socio-etniche; ma anche dello strisciante pregiudizio “sociale” antiebraico presente in parte dell’eredità anche degli ideologi del socialismo utopico; così come il permanere di un pregiudizio di origine religiosa, presente nella dottrina popolare cattolica ben dentro il Novecento, anche nelle sue radici colte.

Un ulteriore spunto di riflessione è forse di carattere più generale, e cioè relativo al contraddittorio rapporto intercorso da un passato più remoto fra istituzioni secolari e religiose, società ed economie, legate al contesto culturale cattolico, e contesto ebraico occidentale: un rapporto di compresenza antichissima, di vicinanza e distanza, gravato forse proprio dalla estrema prossimità, e dalla intermittente familiarità fra i due mondi, le due culture. Nella Venezia del Cinquecento, quella che istituì il ghetto nel 1516, convivevano la segregazione e la familiarità, la vicinanza e la distanza.

Le autorità dogali vietavano la frequentazione, anche erotica e, come è ovvio, il divieto nella libertina Venezia produceva un appeal indiscutibile. Anche Ferrara, Mantova, Padova, e soprattutto Roma, erano autentiche città storiche dell’ebraismo italiano, che convisse nel tempo dentro le restrizioni, fino all’emancipazione ottocentesca.

Fu solo la martellante e “moderna” macchina del consenso fascista quella che riuscì, dal 1938, a fare quello che secoli di storia avevano preparato ma non realizzato: a “inoculare il bacillo dell’antisemitismo”, come diceva Mussolini, nel corpo dei giovani italiani. E quella antica frequentazione, così fascinosa, a volte, nella sua ambiguità carica di divieto, si tramutò in rifiuto, respingimento, negazione: una estraneità molto attuale, molto presente.

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