Educazione critica alla finanza Ci pensa Terreri 

Economia e etica. Il 13 maggio al Trevi di Bolzano, l’incontro con il giornalista economico «La reputazione delle aziende ha un valore di mercato e questa è un’arma per i consumatori» La difficile impresa di umanizzare la finanza: «Il Nobel Yunus ci ha provato, e la strada è quella»


Fabio Bonafè


Bolzano. “Ogni parola che non apprendete oggi è un calcio nel sedere che prenderete domani” diceva ai suoi alunni don Lorenzo Milani. Oggi l’ammonimento, o la profezia, del parroco di Barbiana sembra riguardarci tutti in molti campi della nostra vita: dalla salute alla digitalizzazione, dalla difesa dei diritti all’economia. Un caso mostruosamente evidente è quello della finanza, dal normale conto corrente in banca ai grandi giochi della finanza internazionale. Paroline come spread, derivati, bailout e molte altre ancora, più che essere misteriose, suonano minacciose. Uscire dall’analfabetismo economico è una urgenza democratica. Di questo si parlerà nell’incontro con Francesco Terreri, giornalista economico e attivo nel volontariato, lunedì 13 maggio, con inizio alle ore 18,00, al Centro Trevi, su iniziativa della Biblioteca Provinciale “Claudia Augusta”. Parlando anche di un libro illuminante: “Non con i miei soldi!Sussidiario per un’educazione critica alla finanza”, di Andrea Baranes e altri, edizioni Altreconomia.

Si può dire che abbiamo urgentemente bisogno di una alfabetizzazione economica e finanziaria?

Non c’è dubbio. L’economia e la finanza condizionano le nostre vite ma molti cittadini ne conoscono poco o nulla i meccanismi e quindi non hanno strumenti per scegliere consapevolmente. Una recente rilevazione condotta dalla Banca d’Italia e confrontata con gli altri Paesi del G20, cioè i maggiori Paesi industrializzati, colloca gli italiani all’ultimo posto per conoscenza finanziaria. Il test, per intenderci, non riguardava chissà quali strumenti finanziari sofisticati: si è cercato di capire se gli intervistati avessero un’idea degli effetti dell’inflazione sul potere d’acquisto o di come funziona il tasso di interesse su un conto corrente. Fanno meglio di noi non solo francesi e tedeschi, ma anche cinesi e messicani. E nel Nord Italia, compresa la nostra regione, il dato è solo di poco migliore della media.

Perché spesso sembra che la finanza sia nemica del bene comune e che la politica sia al servizio della finanza?

Ci sono ottimi motivi per pensarlo, ma dobbiamo fare un po’ di chiarezza e in questo ci aiuta un grande storico francese, Fernand Braudel. Oggi viviamo in un’economia di mercato e si parla di mercati finanziari. Braudel però ricorda che il mercato, in forme molto varie, esiste in tante aree del mondo e in molte civilizzazioni da tantissimo tempo. Nei mercati ci sono compravendite, crediti, debiti, successi e fallimenti. Non è certo il regno della giustizia, ma è un sistema in cui molti, potenzialmente tutti, possono concorrere. Quello che invece oggi fa la differenza sono i “piani alti” del sistema economico e lì, dice a sorpresa Braudel, regna il “contromercato”, cioè la collusione tra detentori di grandi capitali e potere politico e militare. Vi regnano quindi il monopolio o l’oligopolio, non il mercato e la concorrenza. È il contromercato dei “piani alti” il vero nemico del bene comune.

Perché ci sentiamo prigionieri di un sistema finanziario internazionale che nessuno è in grado o avrebbe intenzione di cambiare?

Perché non ci rendiamo conto che la benzina per far camminare questa grande macchina la mettiamo noi. È il nostro risparmio quello che circola nei mercati finanziari, oggi così invasivi. Pensiamo ad esempio alla regione: le famiglie del Trentino Alto Adige Südtirol hanno un risparmio complessivo accumulato in banca che supera i 35 miliardi di euro. Due terzi di questa cifra è nei conti correnti, un terzo è investito in azioni, obbligazioni, titoli di Stato, fondi comuni di investimento. Cioè nei mercati finanziari. Ma anche i depositi sostengono indirettamente gli investimenti decisi dalla banca. Potrebbero finire a finanziare la multinazionale delle armi o del petrolio, oppure a speculare sul caffè o sul cacao. O magari sui mutui casa, come nel caso dei “subprime”. Su tutto questo abbiamo poco o nulla voce in capitolo, sappiamo a mala pena quanto il nostro risparmio renderà, sempre che non finisca nei casi di “risparmio tradito”.

Si può “umanizzare” la finanza? Si può proporre un modello equosolidale ed ecosostenibile della finanza mondiale? O dobbiamo rassegnarci all’idea che la corsa al profitto e la competizione internazionale debbano travolgere equità sociale e futuro del pianeta?

Coloro che hanno provato e stanno provando a umanizzare la finanza, spesso si trovano a recuperare la missione originaria del banchiere. Quando il professor Muhammad Yunus, premio Nobel per la Pace 2006, più di quarant’anni fa incontrò Sufia Begun, la donna che realizzava sgabelli semi schiava dell’usura in Bangladesh, l’idea di creare una banca dei poveri gli venne perché cambiò visione su quella persona: non la vedeva più come una povera donna da aiutare, ma come una microimprenditrice a cui si negava la possibilità di riscattarsi. Si mise cioè a fare come don Lorenzo Guetti e Friedrich Raiffeisen più di un secolo fa. Che poi oggi le Casse Rurali e Raiffeisen seguano ancora quell’ispirazione è, come è noto, materia di discussione.

Dovremmo cambiare mentalità rispetto alla finanza? Passare dal timore e dall’isolamento passivo a un agire collettivo e consapevole? Non avremmo una grande forza come cittadini, che fanno scelte politiche, e come consumatori, che spendendo fanno scelte economiche?

Negli ultimi decenni, anche in Italia, gruppi di consumatori e risparmiatori hanno portato nei mercati un punto di vista diverso che guardava alla responsabilità sociale, ambientale, etica. Campagne come quella per non investire in Sudafrica quando c’era il sistema di segregazione razziale, contro il lavoro sfruttato e minorile nelle fabbriche asiatiche che lavorano in subappalto per le grandi catene della moda, l’iniziativa delle riviste missionarie sulle “banche armate”, cioè le banche che finanziano le esportazioni di armi. Iniziative che hanno effetto perché nel mondo economico e finanziario, ancor più dopo la crisi del 2008, si è fatto largo un fattore prima sottovalutato: la reputazione. Una buona reputazione nelle relazioni con la società sta diventando un elemento del successo delle aziende e delle banche. Questa può diventare una leva formidabile in mano a consumatori e risparmiatori consapevoli.

La scuola e le università, come anche i mezzi di comunicazione, non dovrebbero avere un grande ruolo e una precisa responsabilità nel diffondere un pensiero economico critico e adeguato a una società veramente democratica?

A dir la verità le cose si stanno muovendo. Programmi di educazione finanziaria cominciano a diffondersi nelle scuole e anche nel mondo del lavoro e del sociale. La mia associazione, Microfinanza e Sviluppo, lavora molto in tal senso. La rivista Altrafinanza fu la prima, nel 1994, a pubblicare la lista delle banche che finanziavano l’export di armi. Oggi informazioni di questo tipo si trovano anche su media tradizionali. C’è ancora molto da fare, ma qualcosa è cambiato.

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