Gli ebrei a Bolzano e Trento, tracce di una comunità

La menzogna sull’omicidio rituale del “beato Simonino” ha pesato per secoli


di Fiorenzo Degasperi


di Fiorenzo Degasperi

Lo sapevate che la città di Trento, per secoli, è stata gravata da una universale maledizione? La maledizione le fu tolta dopo ben seicento anni dopo che, nel 1965, il vescovo Alessandro Maria Gottardi, acquisiti gli approfonditi studi di monsignor Iginio Rogger, soppresse il culto del Simonino. Correva il 1 febbraio 1967 e la Consulta rabbinica italiana cancellò la parola herem (o Cherem, la stessa maledizione pronunciata contro Baruch Spinoza per le sue derive libertine), ossia l’ interdizione agli ebrei a risiedervi, per la città di Trento. Chi sa quanto sia importante la “parola” per la religione ebraica potrà capire la rilevanza di una “maledizione”, di un anatema lanciato dai rabbini come reazione alla strage di una trentina di ebrei messi al rogo per mano del principe vescovo Giovanni Hinderbach nel 1475. Quel bambino di due anni e mezzo, Simone Unverdorben, trovato morto annegato in una roggia presso il mercato cittadino della conceria sito in quella che oggi è piazza Cesare Battisti, non morì per mano della comunità ebraica “avida del sangue innocente e vergine” per chissà quali culti oscuri da praticare durante la Pesach, la Pasqua ebraica; semplicemente il fanciullo scivolò nell’acqua, lì perì e fu mangiato dai ratti. Ma la chiesa lo santificò e il suo culto si estese molto nell’area tedesca. Qualche anno prima nel vicino Tirolo, a Rinn, presso Hall, degli ebrei di passaggio erano stati ingiustamente accusati di aver ucciso il fanciullo Andreas Oxner e di averlo poi macellato secondo le prescrizioni religiose ebraiche, tagliando l’ aorta, la trachea e l’ esofago.

Come si vede i tirolesi – i trentini e quelli del nord accarezzati dalle umide acque dell’Inn – furono tra i primi in Europa ad aprire la strada verso la persecuzione della comunità ebraica ashkenazita, seguiti poi dalla città di Milano. Il risultato fu che a Trento gli ebrei scomparvero – e sparirono quindi commercianti e finanzieri, potenziali finanziatori di attività economiche –, mentre a Bolzano la comunità ebraica prosperò notevolmente fino al XVIII secolo. Questo ha portato all’ impoverimento, per secoli, di Trento – le fiere importanti calarono da quattro a due (la Casolara e quella di Santa Croce, peraltro troppo specializzate) – mentre Bolzano prese il volo con il consolidarsi a livello europeo di ben quattro fiere (Quaresima, Corpus Domini, S. Bartolomeo e S. Andrea) e la creazione, nel 1634, del Magistrato Mercantile voluto da Claudia de’ Medici. A ruota, dopo Bolzano, la comunità ebraica rese ricca la città termale di Merano, finché la pazzia e l’ ingordigia umana non trasformarono una fiorente presenza economica e culturale (più di 1500 persone) nella pallida presenza, nel secondo Dopoguerra, di una decina di persone.

Correva il 25 giugno 1992 e la cittadinanza trentina appese sulla facciata di una delle case del ghetto – non sulla sinagoga di Palazzo Salvadori, in Via Manci, incorporata come cappella privata della benestante famiglia omonima –, la seguente targa: “In questo luogo ove l’intolleranza ha scritto una pagina buia nella storia dell’uomo segnando con sanguinosa repressione e bando secolare un lungo dissenso fra ebrei e cristiani la città di Trento volle riparare ponendo questa stele a futura memoria ed a testimonianza di impegno fattivo per la costruzione della pace e della tolleranza”.

Quando nel 1475 le fiamme dei roghi si alzavano alte in piazza del Duomo a Trento, a Bolzano era già da molti anni che la presenza ebraica, votata alle fiere, si faceva mecenate grazie alla committenza di Niklaus Vintler von Runkelstein, sommo balivo ducale del Tirolo e come tale primo responsabile per tutti gli ebrei residenti nella contea.

Fu grazie a lui che le ruvide e grigie pareti di Castel Roncolo vennero affrescate, a partire dal 1392, con delle magnifiche pitture passate alla storia. Nel palazzo occidentale, dalla rappresentazione di una giostra con lancieri a cavallo contornata da una serie di personaggi delle diverse casate nobiliari, fanno capolino due ebrei, con il caratteristico cappello a punta conica di colore rosso brunastro, facente parte del costume tradizionale degli ebrei ashkenaziti, caratteristica che appare già su immagini risalenti a prima del 1200.

Ed è seguendo questi caratteristici cappelli, infinitesimali presenze mimetizzate e poco note, che possiamo scoprire, di chiesa in chiesa, di affresco in affresco, la presenza ebraica nella nostra regione. Una presenza, a dir il vero, rintracciabile non solo nei dipinti: dove non arriverà l’arte ci penserà la toponomastica a ricordarci come le comunità ebraiche nei nostri paesi furono vivaci e foriere di cultura e di ricchezza. Basti pensare alle tante vie che portano il toponimo di “ghetto”, ancor oggi mute testimoni di “ghetti” un tempo ricchi di umanità e di creatività.

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