«Il mio Dolomieu pronto a sorprendere il pubblico» 

L’ artista altoatesina in scena con una nuova versione del suo progetto «Non era solo un grande geologo, ha avuto una vita molto avventurosa»


di Daniela Mimmi


BOLZANO. La location è decisamente intrigante: il Centro recupero Materie Prime Secondarie di Brunico. Lì venerdì 14 settembre, dalle 20,30, tra gli scarti di lavorazione da materiali derivati dal recupero e dal riciclaggio dei rifiuti nuovamente recuperati, fra pneumatici, lastre di cartone e pesanti cubi di materiale riciclato, approda il Festival Transart, con tre diverse performance. Ci sarà Impakt, dell’artista multimediale canadese Herman Kolgen (vedi l’articolo in alto, ndr), quindi è la volta dell’artista altoatesina Sissa Micheli che, dopo averlo portata alla sesta Biennale Gheirdeina 2018, ripresenta in una veste totalmente inedita l’installazione Dolomieu. È la storia del geologo Déodat Gratet de Dolomieu, che diede il nome all’imponente gruppo montuoso diventato nel 2009 Patrimonio Unesco. Per Transart l’artista mette in scena una nuova versione del suo progetto, proiettando Dolomieu in un lontanissimo futuro e fondendo nell’opera le musiche del compositore altoatesino Georg Malferhteiner. Su mucchi di rifiuti differenziati, in un processo di compressione musicale e di stratificazione continua, come accade nella formazione di un massiccio roccioso, prende vita il suo nuovo, performativo, mondo dolomitico. E infine, l’electronic sound artist con base a Vienna, Marcos Rondon, proporrà una selezione di Voices of Snakes, voci di serpenti, nuovo album che vedrà la luce nel 2018, un mix di eleganti sonorità ambient, echi industriali e tecno. Originaria di Brunico, Sissa Micheli vive e lavora da anni a Vienna ed espone un po’ in giro per tutta Europa. L’abbiamo intervistata.

Cosa ha cambiato rispetto alla performance presentata in Val Gardena?

«Mi adeguo al posto. A Ortisei c’erano 40 persone sui balconi in centro, a Brunico saranno solo 5, due uomini e tre donne con ruoli anche maschili. Volevo delle voci femminili, ma nella vita di Dolomieu ci sono poche donne. La sua è una storia molto maschile. Ma sono riuscita a inserire la madre, una scrittrice. Anche la musica è cambiata e adesso c’è quella di Georg Malferhteiner. La musica è un misto di elettronica e techno, mentre il canto è il lirico classico. Le voci sono un po’ live e un po’ fatte dal computer».

Come mai questa volta ha scelto di raccontare la vita del marchese Deodat Dolomieu?

«All’inizio mi è stato espressamente richiesto dalla biennale gardenese. Poi mi sono appassionata alla vita avventurosa di questo uomo che ha viaggiato su e giù per l’Europa, è stato due volte in galera, è stato torturato, accusato di essere un traditore. La prima volta che è finito in galera aveva 18 anni: aveva ucciso a duello un cadetto. Doveva restarci a vita, ma dopo 12,13 mesi è uscito ed è entrato nei Cavalieri di Malta. Lì, e anche in galera, ha cominciato a studiare la geologia. Pur essendo nobile, è sopravvissuto alla Rivoluzione Francese. La sua morte fu drammatica come la sua vita: Dolomieu ebbe una fine di vita drammatica. Durante il viaggio di ritorno della spedizione in Egitto di Napoleone, naufragò in Calabria e rimase imprigionato a Messina per 21 mesi, per oscuri conflitti con l'Ordine di Malta. Ritornò libero solo dopo la vittoria dell'esercito francese. Molto scosso dalla prigionia, dopo un ultimo viaggio di studio nelle Alpi, morì in casa di sua sorella in Francia, nel 1801».

Le piace la location che Transart ha scelto per lei?

«Per alcune cose sì, per altre meno. E’ bello lo spazio enorme, il soffitto alto. Ma è complicato costruire le montagne con del cartone. Io utilizzo anche le gomme per dare l’idea del viaggio, perchè Dolomieu è stato dappertutto: sui Pirenei, sulle Alpi, in Bretagna, sui vulcani a Lipari, nelle Eolie, sul Vesuvio, sull’Etna. E in Svizzera, in Francia. Poi è arrivato in trentino e i Monti Pallidi sono diventati le Dolomiti. Con degli acidi era riuscito a capire che le Dolomiti sono formate da calcio e magnesio. Utilizzerò molte coperte termiche, di quelle che si usano per i salvataggi, che da una parte rilasciano il caldo e dall’altra i freddo. Io userò la parte metallizzata argentata per dare il senso delle montagne. La scenografia è un paesaggio artificiale. Sono molto importanti le luci e le nebbie. Il Centro di recupero è uno spazio non convenzionale e a me piacciono i luoghi non convenzionali, come piacciono a Transart».

Ha attualizzato la storia di Dolomieu o l’ha lasciata nel passato?

«Ho mescolato le due cose. Non ci sono lettere, ma cellulari, loro hanno la luce in testa e tutta l’attrezzatura da montagna che una volta non c’era. Però portano dei mantelli molto 800eschi».

La metafora?

«Se non le proteggiamo, le nostre montagne crollano. Per quello le copro coi teli termici...».















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