Il senso di homo sapiens per gli spazi della città 

Bolzano, oggi pomeriggio al Centro Trevi protagonista sarà Claudio Lucchin Cosa significa costruire là dove si esaurita la funzione tradizionale dell’abitare


di Andrea Felis


BOLZANO. L’appuntamento di oggi, 12 febbraio alle 18, del Café Philosophique presso il Centro Trevi di via Cappuccini a Bolzano, presenta un ospite di tutto interesse, considerato che, oltre a esprimere curiosità e autentica passione filosofica, appare in grado di coniugare questa con la sua professione, all’apparenza ben distante dalle questioni speculative; se a ciò si aggiunge che si tratta di un professionista locale di chiara fama, la situazione si fa ancora più interessante. Stiamo parlando di Claudio Lucchin, architetto bolzanino di nascita e – questa è cosa non ovvia – anche di elezione, visto che ha scelto di mantenere il suo Studio, molto noto sia in Italia che all’estero, proprio nella città natale. L’architetto è infatti una delle firme in questo momento più attive e premiate in concorsi nazionali e anche internazionali: di recente un suo progetto, con un lavoro prodotto con uno staff coeso e affiatato come in una bottega medievale, si è aggiudicato la progettazione della nuova sede milanese della società idrica del capoluogo lombardo, una meraviglia di linee, di forme e di vuoti, sospesi a costruire spazi quasi immaginari, ma mantenendosi ben aderente alla funzione per cui il progetto è stato promosso. Un’arca galleggiante, è stata definita, inserita a creare volume leggero in uno spazio urbano di grande visibilità e impatto. Nella realtà altoatesina Lucchin è, si può dire, sotto gli occhi di tutti per almeno tre manufatti – viene da chiamarli così, per la perizia artigiana a e l’amore costruttivo che li caratterizza - che polarizzano l’attenzione degli addetti ai lavoroi, ma non solo, nel capoluogo provinciale. Si tratta in primis del progetto vincente che ha restituito alla città il grande lotto dell’ex Montecatini Edison, gloriosa fabbrica bolzanina, magicamente trasformatasi nel NOI Techpark, straordinario contenitore di idee e di progetti che l’architetto ha disegnato, segnando passo passo una storia collettiva, una memoria diventata luogo. Il secondo spazio è certamente la Berufsschule “Hannah Arendt” di vicolo Wolkenstein, incastonata – è il caso di dirlo – nell’antico convento dei padri Cappuccini, a loro volta ospiti delle vestigia del maniero di Wendelstein, dei Tirolo, parzialmente demolito nel 1277 e ricostruito da Mainardo II. Si tratta di una scuola professionale, che ha costruito un modello di riferimento per una nuova concezione di edilizia scolastica, nel merito e nel metodo: una elegante struttura ipogea, affascinante perché funzionale e insieme plastica, avvolta attorno ad una realtà antica che ridiventa viva, con inaspettate aperture verso l’esterno, un meraviglioso recupero di uno spazio medievale di assoluta contemporaneità – il chiostro, magico e arioso – e, infine, una perla nascosta all’interno. Si tratta dei resti del piccolo borgo romano, probabilmente il Pons Drusi della Tabula Peutingeriana, acquattati sotto alla struttura, e inseriti in essa: anche qui, vuoti e pieni in una successione davvero particolare, e pienamente dentro il tessuto di questo territorio alpino, crocevia d’Europa. Il terzo oggetto è fra i più recenti e forse meno noti, la bella struttura del museo che ospita i progetti innovativi della recente progettazione edilizia provinciale, Archimod. Poco lontano dallo Sheraton, in una via laterale, fa convivere l’efficienza dei magazzini e della tipografia provinciale con gli spazi neri – il non colore che torna spesso nell’arredo e nel segno dell’architetto bolzanino - della macchina museale, un bellsssimo contenitore che è anch’esso oggetto esposto, che espone idee. Come si intuisce, l’incontro fra linguaggio dell’architettura e quello filosofico non diventa affatto difficile, quando l’ordine del discorso non solo è della qualità di cui i progetti e le realizzazione del nostro sono testimonianza: ma anche e soprattutto quando la struttura stessa della creatività di cui è costituito il progettare di Lucchin è una forma di espressiva rappresentazione della domanda attorno al vuoto e al pieno, alla presenza ed alla sottrazione; alla materialità ed alla sua assenza. Un paio di anni fa si è già avuto modo di incrociare le diverse letture, quella del progettista e quella del pensiero astratto, nel contesto di tre densi incontri svoltisi, patrocinante l’Ordine degli Architetti, proprio presso la bella struttura di vicolo Wendelstein: la sala - l’antica navata e l’abside di una cappella religiosa dell’antico castello, invisibile ma presente - era sempre gremita di architetti e urbanisti, straordinariamente partecipi di quell’incontro fra mondi di significato. Una delle immagini più interessanti, spunto davvero ricco, veniva proprio da una riflessione del progettista bolzanino: «Il mito del labirinto ci dice molto sulla nostra condizione. Nel labirinto non ci sono solo uomini. Ci sono anche mostri feroci, déi ed eroi. Ci dice anche che il percorso è tortuoso, pericoloso e che l’ingresso è uno solo». La ricerca visiva e funzionale di Lucchin sembra andare proprio in questa direzione, dove la strumentazione della tecnica non appare più esauriente per formulare le giuste domande, e dove la curiosità filosofica si incarica di dotarsi di altri strtumenti di lettura e di analisi: cosa significa costruire, oggi, in un mondo in cui si è esaurita la funzione tradizionale dell’abitare, dell’occupare gli spazi; e dove le forme di vita appaiono sotto luci diverse, con una contrazione percettiva che condiziona ogni forma dell’agire. Come in un labirinto, una delle immagini più enigmatiche e al tempo stesso espressive della figurazione umana di costruzione di oggetti - in cui l’abitarli implica il perdersi - , interrogarsi sul senso del nostro muoverci, del nostro agire, assegna significato a quei manufatti, a quegli oggetti dentro i quali si svolge tanta parte della nostra esistenza, e che segnano lo stesso nostro spazio di vita. Il titolo della serata è, “Il senso di Homo Sapiens per la città”. Come ricordava Wittgenstein , vi è una analogia ineludibile fra l’immagine della città e il labirinto del linguaggio, il luogo per eccellenza in cui vive l’umano. Una città, per non smarrirsi: o forse, per ritrovare un senso accettando la sfida del perdere le abitudini, il già noto. E trovare in esso domande nuove.













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