L’INTERVISTA»IL SEMIOLOGO STEFANO BARTEZZAGHI

BOLZANO. «In questo momento mi interessa molto l’ immagine pubblica dei libri e delle biblioteche. Mi vorrei chiedere cosa pensiamo, come società, dei libri: quali valori associamo loro, cosa è...


di Giovanni Accardo


BOLZANO. «In questo momento mi interessa molto l’ immagine pubblica dei libri e delle biblioteche. Mi vorrei chiedere cosa pensiamo, come società, dei libri: quali valori associamo loro, cosa è cambiato rispetto a un passato anche recente, che ruolo svolgano nelle nostre vite. Si possono dare risposte un po’ rituali e scontate: il libro è la memoria della società, leggiamo troppo poco, eccetera. Cercherò di non limitarmi a queste.» Con queste parole Stefano Bartezzaghi, scrittore e semiologo, tra i più celebri autori di giochi enigmistici in Italia, ci sintetizza di cosa parlerà domani venerdì 9 novembre, alle ore 18, alla Biblioteca Civica di Bolzano per l’evento di apertura delle celebrazioni per i suoi 90 anni e che continueranno anche sabato con diverse iniziative. Per l’occasione l’abbiamo intervistato.

La lingua istituzionale, quella delle leggi, della burocrazia, dei tribunali, cioè una lingua che dovrebbe essere comunicativa, molto spesso è incomprensibile. Perché accade ciò?

«È sempre stato così, anzi forse questo è il momento storico in cui lo è di meno. Governo, amministrazione pubblica, giustizia sono àmbiti ristretti e separati e hanno sempre (e ovunque, non solo in Italia) sviluppato delle forme quasi gergali, criptiche, iniziatiche. È, questo, anche il motivo delle grafie illeggibili dei medici. Un’eccezione notevole, e notevolmente positiva, è la Costituzione italiana che è scritta in un italiano ammirevolmente privo di tecnicismi e preziosismi compiaciuti. Oggi però si riscontra un abbassamento generale del registro di formalità della lingua e a volte persino in questi àmbiti elevati e quasi separati della società trovano spazio moduli espressivi informali, che vorrebbero «avvicinarsi alla gente».

Cosa si può fare per renderla concreta, chiara, comprensibile?

«Più che scuole di scrittura per dirigenti e manager, che finiscono per produrre soltanto nuovi moduli espressivi da marketing, bisognerebbe pensare a scuole di lettura. Basterebbe fare della scuola che esiste già un luogo dove si cura, innanzitutto, la comprensione dei testi. Chi sa leggere bene, sa anche scrivere chiaro e soprattutto sa comprendere anche testi oscuri. Specialmente quelli che sono inutilmente oscuri. La vera democrazia ha cura delle capacità intellettive dei cittadini».

Crede che nella lingua italiana sia in atto una tendenza alla semplificazione, allo schematismo, all’impoverimento lessicale? Se sì, di chi è la colpa?

«Mi pare che a rispondere di sì l’opinione che finirei per sostenere sarebbe essa stessa un’opinione semplificata, schematica e un po’ povera. La lingua è come i suoi parlanti la fanno essere: se usiamo un numero meno ampio di parole (ma prima davvero se ne usavano di più? E quando? Quando gli italiani parlavano prevalentemente dialetto?), se impieghiamo anglismi anche quando in teoria non sarebbero necessari, non è per «colpa» di qualche potere forte o di qualche vizio nazionale. È perché questa è la lingua che serve oggi. Non abbiamo alcun esempio di italiano di prestigio; le persone di successo non parlano, mediamente, un italiano non si dice ricercato ma neppure grammaticalmente troppo sorvegliato. Se vedo che, parlando come capita, si può diventare parlamentare, ma anche giornalista o scrittore, perché dovrei sforzarmi di essere più accurato?»

Crede che la scuola abbia delle responsabilità?

«La scuola fa quel che può, nell’area di prestigio e autorevolezza che le viene attualmente riservata e che è notoriamente sempre più angusta».

Lei dirige un festival a Livorno che si chiama “Il senso del ridicolo”. Nell’Italia d’oggi dove abbonda, a suo parere, il senso del ridicolo?

«Non abbonda. In Italia si ride molto, si dileggiano gli avversari, chi fa ridere il pubblico ha vinto. Ma il senso del ridicolo è una forma di senso del pudore ed è rivolta innanzitutto verso sé: dovrebbe servire a scansare il rischio di far ridere gli altri quando non vorremmo. Sappiamo trovare quanto di ridicolo c’è nelle situazioni, ma solo quando non riguarda noi».

Nel comico, tuttavia, c’è qualcosa di profondamente serio.

«Il riso, per Aristotele, era «proprio dell’uomo»: sin dall’Antichità l’umanità ha ritenuto di essere l’unica specie che è capace di ridere, cioè di comparare quello che è con quello che dovrebbe essere; a creare attese e mandarle deluse per riderci sopra. Del resto possiamo sapere cosa sia il «serio» solo in rapporto al «comico», e viceversa. Di nessun animale diremmo che è «serio», a meno che non si tratta di quegli animali così vicini all’uomo da giocare, da cuccioli o in certi momenti della loro giornata. Non direi quindi che il comico sia serio, ma che il comico e il serio sono due facce dell’umanità, in generale; aggiungerei poi che, in particolare, la serietà è condizione della comicità di certi grandissimi, come Buster Keaton».

Quanto è utile saper ridere di sé?

«Ci sono persone che non sembrano in grado di ridere di sé e da questa incapacità traggono grande forza. Sono «gli uomini che non si voltano» di una famosa poesia di Eugenio Montale, i pieni di sé e vuoti di dubbi. Possono mietere successi anche molto ampi, quindi forse saper ridere di sé è inutile o addirittura dannoso. A me pare però necessario per dare una dimensione ragionevolmente relativa a ogni cosa, compresa la propria persona».













Altre notizie

La battaglia degli ambientalisti

Sassolungo: già 70 mila firme. «Monte Pana-Saltria fa paura»

Si sono mobilitate 14 associazioni che chiedono alla Provincia un referendum. «L’area va messa sotto tutela. C’è invece chi vuole cementificare e trarre profitto: previsti da 7 a 22 piloni, alti da 8 a 25 metri


Massimiliano Bona

Attualità