«La letteratura non salva ma forse aiuta a ricordare» 

Loredana Lipperini domani a Bolzano presenta il suo libro «L’arrivo di Saturno» dove il reale mistero della sparizione di De Palo e Toni s’intreccia al romanzo


di Giovanni Accardo


«Graziella De Palo era una giornalista che indagava sul traffico d’armi tra Italia e Medio Oriente, sui servizi segreti deviati, sul lodo Moro. Esce da un albergo di Beirut il 2 settembre 1980 insieme al suo collega Italo Toni e da quel momento i due svaniscono nel nulla. Graziella aveva 24 anni. La sua famiglia l’ha aspettata e cercata a lungo: è stata ingannata e depistata cento volte, e non ha mai saputo la verità. Una verità che attira a sé, come in buco nero, i misteri irrisolti del nostro Paese: nella sua storia entra l’intelligence corrotta, Gladio, la P2, la strage di Bologna. E ancora grava, sulla sua morte, il segreto di stato posto da Bettino Craxi. Ma Graziella è stata anche la migliore amica dell’adolescenza, quella con cui condividi scoperte, paure, desideri fra i 14 e i 20 anni. Questa apparteneva a me, che con lei ho attraversato gli anni in cui sembrava ancora possibile sognare mondi diversi». Con queste parole Loredana Lipperini, una delle voci più popolari di «Farhenheit», la storica trasmissione di Radio 3 dedicata ai libri e alla lettura, c’introduce nel suo romanzo d’esordio, “L’arrivo di Saturno” (Bompiani), in cui una storia realmente accaduta, quella di Graziella De Palo e Italo Toni, rapiti e uccisi in Libano e mai più ritrovati, s’intreccia con una inventata, quella del falsario Han van Meegeren. L’autrice presenterà il romanzo domani, alle ore 18, nella Biblioteca Civica di Bolzano, in via Museo 47, conversando con Paolo Mazzucato della sede Rai di Bolzano.

Perché ha deciso di raccontare la storia della sua amica Graziella De Palo in un romanzo? Cosa può aggiungere la letteratura a un fatto di cronaca?

«Tutto e niente. La letteratura non modifica la realtà, ma può raccontarla e riportarla alla luce. Il mio non è in alcun modo un romanzo d’inchiesta: è la storia di un’amicizia, dove provo a spiegare come sia stato possibile che una giovane donna si sia volontariamente infilata in un groviglio di tenebra, perché credeva nella verità, e credeva che quella verità si potesse dire».

Dora, la protagonista, dice che bisogna raccontare la verità come se fosse una bugia. Perché?

«Perché la letteratura è una bugia per sua natura: racconta storie a cui fingiamo di credere anche se sappiamo che sono frutto di finzione. Di contro, la cronaca ci rende sempre più sospettosi e tendiamo a comunque a trattenerla per un periodo troppo breve nella nostra memoria. Allora, mischiare i piani forse permette di illuminare il vero, proprio attraverso il falso».

Accanto alla vicenda di Graziella, il romanzo narra la storia del pittore olandese Han van Meegeren. Perché intrecciare queste due storie?

«All’inizio di “F for fake”, Orson Welles fa un gioco di prestigio davanti a due bambini: si fa dare una chiave e la trasforma una moneta. E cita un grande illusionista, Houdini: “Un mago è solo un attore: solo un attore che recita la parte di un mago”. Ho provato a seguire questa via e a recitare la parte del mago: dopo la scomparsa di Graziella, decine di falsari (agenti segreti, spie, mistificatori, criminali di ogni sorta) hanno mentito e ingannato i familiari. Van Meegeren, che nel mio romanzo ha in comune con il Van Meegeren reale solo la professione, viene chiamato sulla cima di una montagna a dipingere un Giudizio universale in un santuario. Un Giudizio universale “alla Vermeer”. Ho pensato che solo raccontando il falso avrei potuto illuminare il vero, solo unendo la pura finzione alla narrazione romanzata di un fatto reale avrei creato un gioco di specchi che pone il lettore quanto meno davanti al dubbio».

Il pittore deve dipingere il Giudizio universale in un paesino delle Marche, Col de’ Venti, colpito dal recente terremoto. Perché proprio questo luogo?

«Col de’ Venti è un piccolo santuario sopra Muccia, uno dei paesi distrutti dal terremoto del 2016. Ma è anche uno dei paesi che conosco da quando ero bambina. L’ambientazione è venuta naturale, mentre scrivevo. Dopo il terremoto, è divenuta anche testimonianza. La letteratura non salva, ma forse aiuta a ricordare».

Con “Questo trenino a molla che si chiama il cuore” (Laterza 2014), un viaggio al confine tra Marche e Umbria, lei ha voluto raccontare i luoghi in cui è cresciuta. Che rapporto ha con essi?

«Lo stesso che, si parva licet, Stephen King ha con Castle Rock e Kent Haruf con la contea di Holt. Sono luoghi inventati ma che si fondano sulla conoscenza reale. In “L’arrivo di Saturno” li ho utilizzati narrativamente, nel “Trenino” li ho raccontati nel momento in cui mutavano per l’arrivo della superstrada. Per me sono, semplicemente, casa».

Gli ultimi dati Istat dicono che gli italiani leggono sempre meno. Cosa si può fare per aumentare i lettori?

«Non colpevolizzare chi non legge, non continuare a ripetere che i libri rendono migliori, non schernire chi consuma narrativa ritenuta troppo pop per contare. E ricordare che il problema non è tanto la diminuzione dei lettori, ma la comprensione del testo scritto. Quella sì, diminuisce giorno dopo giorno».

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