STORIE

Le verità «dimenticate» sul Lager di via Resia

Nel libro intitolato «Criminali del campo di concentramento di Bolzano» il gran lavoro di Costantino Di Sante svela tutta la realtà del luogo di sevizie


di Paolo Campostrini


BOLZANO. Quando i malati in fila davanti all'infermeria, al freddo, povere anime senza cibo da giorni, per la dissenteria o la febbre, non se ne stavano ben allineati c'era lei , la "tigre" a metterli in riga. Una detenuta del Lager di Bolzano, Isabella Salvi, dettò dopo la guerra la sua testimonianza: «Bastonava tutti con una frusta nera. Da dressage...». Se la picchettava sulla gamba prima di colpire. Per questo suo vezzo c'era chi la chiamava "Zirkusreiterin", cavallerizza da circo. Dopo i malati, le sue preferite erano le donne. Le rasava a zero, ad alcune tingeva i capelli con del catrame, altre le costringeva a spogliarsi e a stare nude davanti agli uomini. Godeva a farli ridere. Hildegard Martha Luisa Laechert, ecco chi era la "tigre". Il capitano del campo, Schiffer, la definisce «una vera donna tedesca col necessario cruore duro». E lei lo ricambia ricevendolo spesso nel suo letto. La "tigre" voleva almeno una ebrea al giorno da far finire in cella di rigore: sapeva dove finivano quando le faceva poi salire sul treno per la Germania. E poi c'era il boia Seifert col suo compare Otto Sain, le guardie ucraine. E Albino Cologna, da Malnitz, Carinzia, dove nasce da genitori italiani. Quando depone davanti gli alleati confessa: «Se qualche internato non faceva il suo dovere lo prendevo a schiaffi». Ma non racconta le sue infinite violenze.

Karl Gutweniger è di Quarazze, vicino a Merano e fa l'interprete. Traduce dall'italiano per le SS. Ma legge anche le sentenze di morte senza battere ciglio e assiste agli eccidi di via Resia. Confessa: «Sparavano loro alla nuca, un colpo secco». La pistola l'aveva anche lui. Continua la deposizione: «Una volta ho dovuto difendermi, un paio di internati volevano fuggire e mi hanno travolto, togliendomi l'arma». Li riprenderanno. Forse per questo, quasi sicuramente partecipa direttamente al secondo eccidio del campo, il 12 settembre del '44. Una terribile fucilazione di massa.

Appaiono infine anche le segretarie. Ben pettinate, gonne a fiori. Come Margarethe Hatschock e anche Paula Plattner, di Chiusa, assistente del boia Hans Haage.

E ancora i soldati, gli assistenti, le SS. Eccoli, gli aguzzini. Volti sorridenti, ritratti sgranati dal tempo, divise, occhi fissati da uno scatto, nel '44 o nel '45, che ancor oggi non si sa come guardare tanto sono gelidi, illeggibili, lettere, disegni, confessioni, atti dei tribunali del dopoguerra. Tutto questo emerge dagli archivi ai quali Costantino Di Sante ha avuto accesso. Soprattutto alleati, come il National Archives di Washington. Di Sante è uno storico , collabora con l'Università di Teramo e di Roma Tre, è nel consiglio scientifico dell'Istituto Parri e ha pubblicato numerose ricerche sull'internamento fascista, sull'occupazione della Jugoslavia e sul colonialismo italiano. E ora ha scritto, dopo anni di ricerche certosine oltre che tra gli archivi americani anche a Roma e a Milano, un libro fondamentale, "Criminali del campo di concentramento di Bolzano". È edito da Reatia (319 pagine, 24 euro) che lo ha fatto uscire in questi giorni e che sarà presentato il 17 gennaio alla Biblioteca Civica di Bolzano. Con questo libro, nessuno potrà più dire di non sapere.

Certo, molto già sapevamo: il processo a Seifert, agli inizi del 2000, con l'emergere della certezza che il Lager di via Resia non erano solo un "Durchgang" un campo di passaggio ma un luogo di sevizie "in autonomia". E ancora la riscoperta del muro, le parole di Nella Mascagni, il lavoro dei nostri storici, da Happacher a Di Michele, la tigna dell'Anpi nel far riemergere dal passato storie difficili e difficilmente accettabili in anni in cui molti pensavano fosse stato meglio dimenticare. Non riaprire le ferite. Come scrive Di Sante nel suo libro: gli italiani perchè avevano da farsi perdonare il ventennio fascista e l'oppressione non solo linguistica dei sudtirolesi; questi ultimi, a loro volta, per tenere in sordina l'adesione entusiastica di tanta parte della popolazione al nazismo e all'occupazione tedesca, vista spesso non solo come ritorno alla patria pantedesca ma anche, sic et simpliciter, come adesione al terzo Reich.

Parlano quei volti di aguzzini e quelle vittime, nel libro. Ed emergono, agghiaccianti, le prove documentali alleate sull'uccisione di Manlio Longon, strozzato nei sotterranei del Corpo d'Armata, altra succursale dell'universo concentrazionario nazista. E si sfaldano definitivamente le ipotesi di un "suicidio" del martire partigiano, così come sostenuto dai suoi carnefici e anche dai collaboratori.

Violenze, torture, sevizie, ordinario orrore quotidiano: questo è avvenuto a Bolzano. Altrochè "campo di passaggio". Il male era qui e ci stava stabilmente. A tal punto che tanti ufficiali nazisti scrivevano felici del possibile «trasferimento in Sudtirolo», dove spesso nuotavano come pesci nell'acqua. Emergono silenzi, connivenze, paure. Il tacere di tanti che sapevano, anche allora, mentre tutto avveniva. Cantine vinicole che si facevano stampare le etichette per il Lagrein nella tipografia del campo. Alberghi e ristoranti, come il "Marklhof" vicino a Castel Firmiano, che ospitavano ufficiali e collaboratori del campo, felici dopo una giornata "di lavoro". Le gite a Colterenzio, le soste nei masi tra vino e würstel, i sottufficiali che rubavano le provviste, il mercato nero tra i fornitori. Ecco la quotidianità del male di cui è stato non solo testimone ma anche protagonista l'Alto Adige e Bolzano e tanti altoatesini che dopo la guerra hanno provato a minimizzare, cancellare, strappare documenti.

Ma emergono anche vite coraggiose, uomini e soprattutto donne impavide che dopo la prima "decapitazione" delle cellule resistenziali, continuano a rischiare la vita per assistere i prigionieri, tenere i collegamenti con le centrali fuori provincia, la Zona industriale che diventa fortino di libertà, operai, impiegati delle fabbriche che scelgono di non stare fermi. In mezzo a tanti che invece aspettano la fine, sperando che la tempesta passi. Il tutto qui, nelle case e nelle vie che oggi ci sono famigliari.

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