STORIA E MEMORIA»IL LIBRO DI COSTANTINO DI SANTE

TRENTO. Bolzano succursale dell’ orrore. Professore , ma com’è che un macigno così sul passato di una intera città sembrava fosse sparito, e per decenni? «È che sul Lager di via Resia - risponde...


di Paolo Campostrini


TRENTO. Bolzano succursale dell’ orrore. Professore , ma com’è che un macigno così sul passato di una intera città sembrava fosse sparito, e per decenni? «È che sul Lager di via Resia - risponde Costantino Di Sante - si è costruito quasi un patto non scritto, visto che in tanti avevano molta voglia di dimenticare. E il più in fretta possibile...». Poi il muro riscoperto. E le voci finalmente ascoltate di chi ci era passato. E infine gli archivi. Che Di Sante, storico, docente a Teramo, ha scandagliato. Italiani ma soprattutto americani: le carte del “War crimes branch”, presso i National Archives di Washington. E infine il libro (“Criminali del campo di concentramento di Bolzano”, Raetia, 317 pag. 24 euro, presentato ieri a cura dell’ Anpi da Guido Margheri) che fa riemergere, come da un vaso di Pandora dell’ abiezione umana, immagini, volti, parole dette e poi archiviate, ammissioni. Altrochè Druchgangslager, campo di transito, quasi fosse stato uno stallo alpestre prima di partire per la Germania: a Bolzano si torturava giorno e notte, si picchiava e si uccideva come pratica quotidiana. E non c’ era solo Misha, il boia ucraino ma gente di qui, impiegati che smesse le carte impugnavano frusta e pistola, nazisti, collaborazionisti, complici e segretarie zelanti. Tutti dentro la macchina.

Professor Di Sante, perchè solo adesso?

«Le carte, le testimonianze dei processi, le ammissioni c’ erano sempre state. Erano lì. Ma non ho iniziato io. Sono un paio di decenni che per merito di molti il Lager ha smesso di essere un buco nero. La valorizzazione del muro ne è una testimonianza».

Ma sono dovuti trascorrere quasi cinquant’anni... E ancora adesso c’è chi minimizza.

«Lo so. C’è stata una grande voglia di dimenticare. E non solo da parte tedesca. Come se tutti avessero qualcosa da farsi perdonare».

Intende tedeschi e anche italiani?

«Allora: i primi avevano tutto l’ interesse a mettere da parte la collaborazione molto attiva di gran parte della popolazione al regime nazista. Sappiamo le ragioni etniche, naturalmente, di questa adesione di massa. Ma poi ci sono state delazioni antiebraiche, attività molto intense di collaborazione, tanti abitanti di qui coinvolti anche nel Lager. E poi gli italiani, nel Dopoguerra, erano preda del senso di colpa che nasceva dal Ventennio: l’ oppressione linguistica, l’ arrivo in massa, la sostituzione etnica».

Insomma, gli uni e gli altri avevano alle spalle due regimi.

«È così. Ma poi c’ era una larga fascia di popolazione sudtirolese che ostentava indifferenza ma in fondo appoggiava i nazisti di qui e quelli appena arrivati con la Wehrmacht o le Ss».

Ecco, com’era il rapporto tra questi ultimi e Bolzano?

«Si sentivano come pesci nell’acqua. Ci sono lettere di ufficiali tedeschi che scrivono a casa e dicono: bene, lascio Trieste dove ci sono italiani e partigiani e mi mandano a Bolzano. Sono felice...».

Dunque, si fidavano?

«Allora ci sono due aspetti. C’ è il reclutamento e lì non si andava per il sottile. E solo pochi eroi si sono negati. Ma poi c’ erano le tantissime adesioni. Appena arrivati i comandi entrano subito in contatto col mondo degli optanti».

Che sono quelli che scelsero il Reich...

«Ma i tedeschi selezionano soprattutto quelli che parteciparono alla macchina delle opzioni. Gruppi e organizzazioni ben presenti sul territorio che stavano ancora muovendosi per le partenze e per, come si dice, fidelizzare i possibili candidati. E già da tempo in contatto con le centrali del Reich. Quella è stata la base iniziale di sostegno immediato».

Lei parla dunque di ambiente non ostile?

«Assolutamente no. Chi arriva qui dagli altri fronti vive in una atmosfera rilassata. Ci sono molti soldati o ufficiali austriaci nei vari corpi. Ma anche i germanici hanno subito la possibilità di trovare alloggi, di passare i pomeriggi nei masi o di mangiare la sera nei ristoranti. Non ci sono pericoli».

Lei presenta documenti e immagini che illustrano la classica schizofrenia di comportamenti che spesso si creava nei luoghi dei Lager, anche a Dachau, ad esempio, dove tutto ,fuori dal campo, sembrava normale...

«E pure a Bolzano. C’erano le aziende vinicole che andavano alla tipografia del Lager a farsi stampare le etichette, commercianti che agevolavano il mercato nero delle Ss, donne che entravano e uscivano per fare amicizia con gli ufficiali».

E invece dentro si uccideva...

«È questo l’ orrore. Dagli archivi escono le immagini delle camere di tortura, Albino Cologna, uno che avrebbe dovuto essere una semplice guardia, che ammette di girare con la pistola, la “Tigre”, una kapò che frusta i malati e poi vuole ogni giorno una ebrea da mettere in cella di rigore, le segretarie che vedono tutto e poi festeggiano».

E la Resistenza?

«Prima prova a muoversi in armi. Ma è soprattuto di provenienza esterna. Poi, quando viene impiccato Longon...»

Perchè finalmente si dice con certezza che l’ hanno assassinato...

«Lo si dice. E si racconta come e quando: con un cappio nelle cantine del Corpo d’ Armata... Con lui viene decapitata quella fase resistenziale. Da allora ci sono solo eroiche attività di assistenza. Si crea una rete di aiuto per i carcerati, si scrive, si cercano cibo e contatti. Ma solo da parte italiana. Ed è la Zona, sono i quartieri operai i luoghi di questa resistenza non armata. Ma in cui si rischia ogni giorno la vita anche solo per un pezzo di pane allungato nel Lager...».

E ora?

«Ora si conosce tutto. Ma il clima, lo avverto con chiarezza, è già molto cambiato per poter guardare tutto il passato con occhi finalmente aperti».













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