«Su foibe e esuli bisogna coltivare l’ascolto» 

Bolzano, oggi la giornata di approfondimento voluta dal Centro per la Pace «Sbagliato usare la parola genocidio per ciò che accadde su quel confine»


di Paolo Campostrini


BOLZANO. Per approfondirne il significato del “Giorno del Ricordo” che ci siamo appena lasciati alle spalle, il Centro per la Pace di Paolo Valente, organizza per oggi, 12 febbraio, alle ore 18, un incontro con lo storico Giorgio Mezzalira. L' appuntamento si terrà nella Sala di Rappresentanza del Comune, in vicolo Gumer, a Bolzano. Introdurrà l’incontro il giornalista Maurizio Ferrandi, a seguito dell’intervento di apertura degli ex sindaci Giovanni Benussi e Giovanni Salghetti Drioli. Giorgio Mezzalira aiuterà il pubblico a guardare agli eventi del “confine orientale”, dall’esodo alle foibe, partendo dalla storia altoatesina, evidenziando due contesti territoriali che si possono definire come punti sensibili e caldi del nuovo assetto internazionale uscito dal secondo conflitto mondiale. Giorgio Mezzalira è uno storico e un ricercatore. Studi a Bologna in Storia contemporanea, è tra i fondatori del gruppo “Storia e regione”, siede nel comitato scientifico del Museo storico di Trento, ha insegnato in quella università, ora al liceo Francescani. L’ abbiamo intervistato.

Professore, ma non è che oggi questo appropriarsi, da destra, della tragedia delle foibe e dell’ esodo, sia l’ altra faccia della rimozione o addirittura della negazione di questi stessi fatti da parte della sinistra ieri? E magari anche del centro?

«È probabile. Si è coltivata la memoria di un orrore vissuto rispetto a una realtà politica considerata ostile. Per decenni anche gli esuli e le loro famiglie sono stati lasciati soli. E questo oggi fa si che da tutte e due le parti vi sia una memoria parziale, che non aiuta a vedere le cose anche con gli occhi dell’altro...».

Sia sincero, un convegno come questo, del Centro Pace, dieci anni fa sarebbe stato possibile?

«Ammetto di no. Difficile».

E perchè?

«Ci ricordiamo tutti, o almeno alcuni, il clima col quale erano stati accolti i profughi istriani e dalmati soprattutto da parte di chi si riconosceva nella sinistra storica».

Gli appelli sull’«Unità» per evitare anche solo il contatto con loro...

«Era così. C'era una barriera ideologica che portava una parte a riconoscersi nel mondo comunista e vedeva questi italiani in fuga come quelli che non l’ avevano accettato , quel mondo. E poi erano profughi. Come oggi, li si vedeva come coloro che “venivano a rubarci il pane”. Nell’ Italia del ’46 una cosa preziosa, immagino».

Ma da lì non ci siamo più mossi. E per cinquant’ anni...

«Questo dileggio, il vederli sempre e solo come fascisti che scappavano, senza cogliere il dramma del confine, il fatto che fossero italiani cacciati perchè tali, ha creato un vuoto anche nella ricerca storica che è stato riempito dalla memoria. La quale ha trovato altre sponde. Di qui una lunga rimozione».

Cosa intende quando parla di “vedere la storia con gli occhi dell’ altro”?

«Coltivare uno sguardo critico. Mettere insieme le cose accadute senza più dividerle ideologicamente».

Cominciando da dove?

«Dal guardare a quel confine alzando gli occhi su quello che stava accedendo, in quei terribili mesi tra la fine del ’43 e il ’45 , su altri confini europei. Ci sono stati esodi forzati di intere popolazioni, passioni identitarie, sfide etniche brutali...».

Ma quello è il “nostro” confine, ovvio che l'occhio cada lì, no?

«Ma anche per noi è tempo che lo si osservi evitando le contrapposizioni che ci hanno sempre diviso. Ad esempio considerando che, primo, gli uccisi, i gettati nelle foibe, quelli cacciati o in fuga non erano “fascisti” ma spesso soltanto italiani. Poi che stava svolgendosi non esclusivamente un conflitto tra resistenza e occupante, ma anche un conflitto di classe. Gli italiani erano sì tali e dunque “avversari etnici” ma anche “nemici di classe”. Gente che veniva considerata ostile rispetto al disegno di costruzione di una società comunista così come perseguita dai titini. Preti, insegnanti, professionisti, commercianti».

Quindi era in atto il conflitto fascisti-comunisti, quello slavi-italiani e infine quello tra borghesi e proletari per dirla in soldoni?

«Sì, in quel confine a est c’ era tutto questo. E poi la contrapposizione est-ovest e le logiche del dopoguerra e di Yalta».

Maledetti confini...

«Ma dunque soprattutto nazionalismi. Non si comprende quanto accaduto, e si è evitato di raccontarlo per anni, senza considerare che la resistenza jugoslava era sì comunista, e dunque era riuscita a coinvolgere anche italiani su quel fronte, ma che aveva una fortissima componente nazionalista. Come poi emerse con la politica di Tito».

Le foibe entrano in questo quadro, dunque?

«Sì, in una cornice in cui il fascismo percepito dagli slavi combattenti si interseca con il nemico di classe da azzerare e quello etnico da ridimensionare. Ma poi bisogna fare attenzione alle parole che usiamo...».

A cosa si riferisce?

«A genocidio ad esempio. Nella storia e nella ricerca genocidio ha un significato preciso. E lì avvenne ma lo si pone , quel termine , in una luce corretta se ci si riferisce agli ebrei e a San Sabba, ad esempio. Su quel confine il dramma degli italiani è stato diverso. Si risistemano brutalmente le linee di demarcazione, si ribilancia il territorio a favore degli slavi cacciando gli italiani, ma poi Tito apre, magari propagandisticamente, al progetto della fratellanza italo-jugoslava. Voglio dire che le parole vanno attribuite a fatti specifici e ci sono parole e parole. Aggiungo: così si usa a sproposito il termine genocidio per i crimini contrapposti portati a compimento dal fascismo...».

Intende i campi di concentramento italiani per gli slavi e il comportamento in guerra?

«Anche. Il fascismo represse brutalmente, nei campi morirono centinaia di persone per inedia, fu l’ altra faccia della tragedia su quel confine ma non avvenne neppure in quel caso un genocidio. Quindi attenzione».

Le colpe del prima e del dopo, quelle italiane e quelle slave sono mischiabili?

«Non si tratta di metterle semplicemente insieme ma di cercare un terreno comune di riconciliazione. Anche in termini storici oltreché umani. È giusto, giustissimo, che le comunità dalmate e istriane coltivino il ricordo, che lo faccia il Paese e l’ abbiano perseguito i presidenti della Repubblica. Tuttavia la ricerca ha il dovere di alzare lo sguardo».

Fino a dove?

«Almeno fino alla prima guerra. Lì nasce tutto. Sia qui, sul nostro confine, che a est. Sul Brennero si coltivano i nazionalismi, e pure laggiù. Le passioni identitarie, i trasferimenti di intere popolazioni accomunano milioni di europei dopo la prima e dopo la seconda guerra. E gli italiani ci finiscono in mezzo. Schiacciati dalle vendette etniche e nazionalistiche ma anche dai conflitti politici e di classe. È questa sovrapposizione che fa di questa Giornata del Ricordo. qualcosa su cui riflettere insieme. Ed è questa capacità di vedere le cose con gli occhi degli altri che si può coltivare la ricerca».

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