«Vi racconto la storia di un autore maledetto» 

Domani alla Ubik di Bolzano e venerdì a Merano presentazione di “Fratello minore” «La vicenda è quella di Peter Brasch, scrittore e uomo di teatro di scarso successo»


di Daniela Mimmi


BOLZANO. Berlino, zona est, un autunno degli anni novanta, prima dell’alba. Un uomo scende in strada, è uno scrittore fallito e un ex-bevitore, un “autore maledetto” di nome Peter B. Ha quarant’anni e la sua vita è sospesa tra un passato difficile e un futuro incerto (e breve). Vent’anni dopo, Stefano Zangrando, autore bolzanino di nascita e trentino-berlinese d’adozione, s’imbatte nei ricordi che quell’uomo ha lasciato in chi lo ha conosciuto. Si mette sulle sue tracce, ne scopre i testi, decide di ricostruirne la figura. Immagina, interroga, si rivolge a lui. E scrive un libro, “Fratello minore”, edito da Arkadia, che Zangrando presenterà, accompagnato da Marco Buzzoni alla chitarra, all’Ubik di Bolzano il 14 febbraio e il giorno seguente, il 15 febbraio, all’Alte Mühle di Merano in collaborazione con la Grazer Autorinnen-und Autorenversammlung. In “Fratello minore” si incontrano per le strade di Berlino due scrittori che non si sono mai incontrati. Uno è l’autore, nato nel 1973 a Bolzano ma con un link sempre in funzione sulla capitale tedesca, dove ha ottenuto nel 2008 una borsa di scrittura della Accademia delle Arti, per poi ricevere nel 2009 un premio italo-tedesco per traduttori, e oggi al suo terzo romanzo. L’altro è appunto Peter “B.”, che sta per Brasch, figlio di un ebreo in fuga dal nazismo che, diventato comunista, fa una relativa carriera burocratica nella Germania dell’Est, nonché fratello del più celebre Thomas Brasch, poeta e regista fuggito all’Ovest. Peter resterà invece nella DDR, sperando inizialmente in una riforma dall’interno, ma sempre più critico, fino a venir espulso dall’università per aver espresso solidarietà a Wolf Biermann. Diventerà scrittore e uomo di teatro di scarso successo, un dissidente appartato della Berlino est, sopravvissuto poco più di un decennio all’unificazione delle Germanie. Chiediamo a Stefano Zangrando come e quando si è imbattuto nel suo personaggio. «Di Peter Brasch ho sentito parlare per anni dalla mia pensionante berlinese, di cui Brasch era amico stretto, ma i racconti su di lui sono rimasti per molto tempo un mero sottofondo dei miei soggiorni tedeschi».

Che cosa ha risvegliato il suo interesse, tanto da scrivere un libro su di lui?

«Un senso di vicinanza all’uomo e l’interesse per gli esiti dello scrittore. Mi affascinava la figura di un “minore”, di uno che per ragioni personali e storiche aveva conosciuto più sconfitte che successi, ma rialzandosi e riprovandoci ogni volta, fino a un cedimento precoce e definitivo. E mi affascina tutt’ora la sua opera imperfetta, che nasce da un’immaginazione sfrenata, con tratti ora fiabeschi, ora rabbiosamente politici, mai consolatoria, sempre provocatoria».

Chi è veramente Peter Brasch?

«Per me è difficile dirlo, visto che non l’ho conosciuto di persona. È anche la ragione per cui nel libro si chiama Peter B.: tagliare il cognome significava serbare uno spazio necessario all’immaginazione. Ma credo di aver capito, attraverso le ricerche compiute e i colloqui avuti con chi lo ha conosciuto, che Brasch era un uomo ferito e un artista libero, con una storia familiare non facile che lo esponeva a certi scompensi, ma con un cuore puro, che si manifestava soprattutto con i più piccoli». Quanto ci ha messo e come è riuscito a trovare tutti i documenti, trovare e parlare con le persone che hanno conosciuto Brasch?

«Ho condotto ricerche e interviste nell’arco di un triennio. Le poche pubblicazioni di Brasch le ho trovate per lo più in internet, per via antiquaria, tutto il resto è conservato nell’archivio dell’Accademia delle Arti di Berlino. Ho potuto accedere al lascito grazie a Marion Brasch, la sorella minore di Peter, scrittrice anche lei e unico membro della famiglia ancora in vita. E ho parlato con varie persone che gli furono vicine, per capire meglio non solo Peter, ma anche l’epoca e i luoghi in cui visse».

Il lettore come affronta il suo libro? Come un romanzo, o una biografia, o…?

«È una forma mista, un ibrido romanzesco che comprende autofiction, biografia, drammaturgia, documenti, fantasticherie, traduzioni, riflessioni critiche. Come tale chiede al lettore qualcosa una disponibilità particolare a mettere in discussione le proprie abitudini di lettura, che un libro convenzionale non richiede. Ovviamente mi auguro che alla fine questa varietà al servizio di un’unica storia abbia un effetto remunerativo».

La sua scrittura è stata definita sperimentale, anche per l’uso della seconda persona, cosa inusuale nei romanzi. Come e perché ha fatto questa scelta?

«È stata una scelta per così dire inconscia. Inizialmente l’idea era quella di scrivere un libro in cui mettere in gioco tutte le competenze che ho potuto sviluppare negli anni come mediatore letterario. Poi, solo dopo, ho capito che quel “tu” avviava un confronto profondo dell’autore e traduttore con l’altro, il suo oggetto, pervenendo grazie ad esso anche a una nuova e più matura cognizione di sé».













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