Kronos e Kairos, l'arte alla prova del tempo



Lo scorrere incessante del tempo testimoniato dai ruderi del Palatino e l' attimo da cogliere come gesto creativo per lasciare una traccia in questo flusso inesorabile. Eternità e attualità, un confronto giocato sul terreno dell' arte, cercando un dialogo nel set grandioso dell' Urbe affacciato sul Circo Massimo e sull' Anfiteatro Flavio. A questo punta la mostra "Kronos e Kairos, i tempi dell' arte contemporanea", promossa dal Parco Archeologico del Colosseo e realizzata con il coordinamento scientifico della Direzione Generale Arte e Architettura contemporanee e Periferie urbane. Le opere di 15 artisti italiani e stranieri si misurano fino al 3 novembre con le rovine imponenti e suggestive dell' area. "L'esposizione - spiega Lorenzo Benedetti, il curatore - non vuole confrontare l'arte contemporanea con un luogo del passato, ma vuole individuare uno spazio non contestualizzato da una dimensione cronologica lineare e cercare di immergersi dentro un tempo che non diventa una cornice o un contesto neutrale in cui inserire le opere". L' obiettivo è "sviluppare l' idea di come il contemporaneo può essere attivato in un contesto così fortemente storicizzato". Ma è anche l' occasione - osserva Benedetti - per "riflettere sulla difficoltà della scena italiana a imporsi. Dovrebbe essere normale per noi usare luoghi archeologici per mostrare l' arte contemporanea, rispetto ai paesi europei che hanno un numero molto più alto di musei dedicati". Prima ancora che il percorso cominci a spiazzare è "Stone Foundation", di Jimmie Durham, del 2019, una parabola satellitare rossa con l' antenna formata da un osso e un ramo bianchi, un pezzo di "archeologia industriale" contemporanea, che richiama un tempo ancestrale. Sotto le monumentali arcate si stagliano le tre grandi bandiere in pvc - 8 metri per otto ciascuna - di Matt Mullican, realizzate per questa occasione. Ecco poi in una nicchia i due tori meccanici in movimento della danese Nina Beier sovrastati da contenitori di plastica pieni di latte in polvere; il sipario rosso e le finte colonne della romana Catherine Biocca da cui spunta la testa di un puer. E ancora il Cigno antropomorfo in marmo, resina, rame e ottone del marchigiano Fabrizio Cotognini; la videoistallazione della artista e regista Ra Di Martino con dieci proiettori che lanciano sulle volte immagini come affreschi; i cancelli di metallo della inglese Kasia Fudakowski negli spazi dello stadio; le Figure sdraiate in ottone di Hans Josephson (1920-2012), una del 1971 e l' altra realizzata trenta anni dopo, simili nonostante il lungo arco di tempo che le separa; i Cani-uomo in poliuretano stampato in 3d dell' austriaco Oliver Laric, evocativi di figure che richiamano l' antico Egitto e la cultura greco-Latina. Di grande effetto l' opera del fiorentino Giovanni Ozzola. "E' un muro di ardesia di 4 metri per otto - dice il giovane artista - ed è graffiato da 'cicatrici'. Ogni linea bianca rappresenta il viaggio di un esploratore. Per due anni ho studiato tutte le rotte fino al 1926, quando furono scoperte e mappate le ultime zone della Terra. Gli itinerari incisi sull' ardesia mostrano tutto il planisfero ma la geografia è assente, ciò che si vede è la geografia dell' umanità, trasversale a ogni cultura, e il bisogno di spingere l' ignoto sempre più lontano da noi". "Non volevamo che questo luogo fosse un contenitore ma mettere in comunicazione i due mondi cercando di far capire i reali punti in comune - spiega Martina Almonte, responsabile della valorizzazione del Parco archeologico -. Per gli antichi il tempo era molto meno importante del modo in cui avvenivano le azioni. L' arte contemporanea si avvicina per certi versi al tempo come istante da cogliere. Un contesto antico come questo può aiutare a renderla più comprensibile".    









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