l’opinione

L’orso, la montagna dei montanari e la montagna dei cittadini

La riflessione dell'antropologo: una convivenza perfetta fra uomo e grandi predatori è un’illusione


Annibale Salsa


BOLZANO. Nelle valli attorno all’Adamello e alle Dolomiti di Brenta la presenza dell’orso bruno faceva ancora parte della memoria recente in quanto l’area in questione costituiva l’ultimo territorio del versante italiano delle Alpi ad essere abitato dal grande predatore. Figure di valligiani del passato diventate mitiche - Luigi Fantoma da Strembo, «il re di Genova» - erano un simbolo riconosciuto. A quei tempi l’autorità statale, l’Imperial-regio governo tirolese, metteva a disposizione cospicue taglie allo scopo di incentivare gli abbattimenti dei predatori ritenuti nocivi.

Oltre alla Val di Genova, incuneata fra Adamello e Presanella, gli spazi frequentati dagli ultimi orsi si estendevano alla Val d’Algone, alla val di Tovel, a quella dello Sporeggio. Tutte valli piuttosto selvagge gravitanti attorno al Gruppo di Brenta. Tali presenze, a detta degli anziani del luogo, non costituivano più un grosso problema a causa del numero esiguo di esemplari. Quindi il fattore densità era determinante per una convivenza possibile. I vecchi esemplari, tuttavia, non erano più in grado di riprodursi essendo sopravvissuti soltanto pochissimi maschi. Da qui la decisione, da parte del Parco Adamello-Brenta, di tentare la reintroduzione di femmine provenienti dalla Slovenia.

Erano tempi in cui stava maturando una nuova cultura incentrata sul bisogno di riscoprire la natura e riviverla dopo anni di disinteresse. Tale esigenza è andata crescendo negli ambienti scientifici deputati alla ricerca ma, soprattutto, in un nascente ambientalismo spesso lontano dai territori e contrassegnato da una matrice culturale prevalentemente urbana. Questo fatto spiega il perché i montanari siano portatori di un’idea di natura e di una sua conservazione del tutto separata dal protezionismo cittadino. La montagna vissuta in termini socioeconomici è cosa diversa dalla montagna idealizzata, percepita in un contesto interamente naturale. Nel mondo rurale alpino gli statuti delle comunità (le «Regole», le proprietà collettive di uso civico) stabilivano, fin dal Medioevo, norme precise di tutela delle risorse naturali al fine di renderle riproducibili. Viceversa, chi non vive delle risorse della montagna va alla ricerca di mondi vergini, attratto dalla dimensione selvaggia.

È quello che sta accadendo ai nostri giorni che vedono le terre alte spopolarsi di presenze umane e popolarsi di presenze non umane. Questo fenomeno viene sempre più salutato dall’ambientalismo ideologico come un’opportunità, una forma di riappropriazione da parte della natura di quegli spazi che la colonizzazione agraria e il formarsi di insediamenti sparsi avevano sottratto alla foresta. Ormai da molti anni le superfici boscate aumentano rapidamente, i prati non vengono più falciati, la piccola manutenzione del giorno per giorno tralasciata. Sul versante animale la diffusione del lupo ne è una riprova e le reintroduzioni di altre specie come l’orso una ulteriore conferma. Siamo sempre più in presenza di una «wilderness di ritorno», figlia dello spopolamento della montagna.

In termini storico-antropologici si tratta del tramonto di un modello di civilizzazione durato un millennio. Sovente chi fa questo tipo di constatazione e se ne preoccupa viene annoverato fra i nostalgici «lodatori del tempo passato» o fra i cultori del folclore. A livello di politiche della montagna tutti concordano sulla necessità di frenare l’abbandono e creare occasioni per un ritorno, soprattutto da parte dei giovani. Ma una cosa sono le enunciazioni di principio, altra cosa sono i dati di realtà. Se le malghe non potranno più essere caricate a causa del reiterarsi dei danni provocati dai grandi predatori –  vi sono già non pochi casi di abbandono sull’arco alpino dove i rimedi proposti sono talvolta peggiori dei mali – l’inselvatichimento sarà la conseguenza diretta. L’eroismo di chi pratica l’agricoltura di montagna, l’allevamento del bestiame, il pascolo vagante, ha un limite rappresentato dalla rassegnazione, frutto dell’imposizione di modelli di vita pensati a tavolino da visionari e sognatori lontani anni luce dal mondo reale.

Tra non molto tempo anche chi non vive dei prodotti della montagna ottenuti dal duro lavoro ma la frequenta da turista esigente - di cui l’«over tourism» degli ultimi anni è espressione – non potrà più muoversi liberamente nella natura sognata e vagheggiata. Sentire abitanti delle valli affermare di non poter più andare a far legna o temere di andare nel bosco è paradossale: è il paradosso di una post-modernità che ha perduto il senso dell’umano. Una dimensione esistenziale che non può e non deve essere confusa con l’antropocentrismo, spesso citato a sproposito nell’intento di emettere condanne senza appello nei confronti dell’uomo.

L’antropocentrismo assoluto ha certamente arrecato danni per un eccesso di volontà di potenza della tecnocrazia. Tuttavia, non per questo, dobbiamo demonizzare l’essere umano in quanto tale. Riguardo alle politiche della montagna si tratta di scegliere, con onestà mentale, che tipo di montagna vogliamo. Una montagna selvaggia dove le attività umane sono bandite e dove gli abitanti sono una presenza scomoda o, viceversa, una montagna abitata ben sapendo che una convivenza perfetta fra uomo e grandi predatori è un’illusione. Si tratta comunque di scelte rispettabili ma non compatibili. Non resta quindi che invocare con fede la protezione di San Romedio o di San Francesco.
 

(L’autore è antropologo e presidente del Comitato scientifico della Scuola per il governo del territorio e del paesaggio)









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