15 marzo 1947, la bestia e l’inferno di tre donne

Trude, rapita e uccisa. Josefine morta di dolore. Cristina, che ha ricominciato


di Luca Fregona


BOLZANO. Questa è la storia di tre donne: Gertude, detta Trude, sua mamma Josefine, e sua sorella Cristina. È la storia di un femminicidio di 70 anni fa. Sull’Alto Adige del 20 novembre 2016 abbiamo rievocato ampiamente il caso, uno dei più drammatici del dopoguerra. Oggi parliamo del “dopo”, di come quella morte tragica ha sconvolto e distrutto la vita di una famiglia. A raccontarlo è sempre una donna, Brigitte Huber Russo, figlia di Cristina, nipote di Trude e Josefine.

Esattamente 70 anni fa, il 15 marzo 1947, il cuoco bolzanino Vincenzo Fratti sale a Cologna sul Guncina con la moglie per far legna. È il primo pomeriggio. Fratti si arrampica sul costone in un tratto impervio. Sale ancora. Intravede una grotta. Sente un odore tremendo. «È una carcassa - pensa -, un capriolo magari». Si spinge più su. Sotto un mucchio di pietre, vede sbucare delle ossa, due caviglie mummificate infilate in un paio di scarponi. Le ossa sono legate da una corda. È un corpo umano. È il corpo di Gertrude Kutin, una maestra di 20 anni scomparsa nel nulla un anno prima, il 26 maggio 1946 mentre da Bolzano raggiungeva la sua scuola a Cologna. Qualcuno l’ha ammazzata e nascosta sotto le pietre. Sotto un sasso, viene trovata la sua borsa. All’interno: la carta d’identità, i quaderni, i libri, le foto, il rossetto, gli occhiali, lo specchietto ovale. Il corpo è in condizioni pietose. Dall’autopsia risulta che è stata seppellita ancora viva. Anni dopo al processo al suo carnefice, la “belva del Tirolo” Guido Zingerle, si saprà che è stata rapita, seviziata e violentata per tre giorni e tre notti.

La sorella di Trude Kutin, Cristina, è morta lo scorso 19 dicembre a 87 anni. Gli ultimi mesi, ormai indebolita dalla malattia, non faceva che ripetere il nome di Trude e raccontare la sua storia quasi in modo ossessivo. «La vita di mia madre - dice oggi la figlia Brigitte - in un certo senso si è fermata al 15 marzo 1947. Al ritrovamento del corpo. Anche se lei diceva sempre che già dal primo giorno in cui Trude era sparita, la vita di tutta la famiglia era entrata in una spirale di dolore senza fine». Aveva un grande rimpianto Cristina, di quelli che vivi come un senso di colpa anche se colpe non hai. «Quello di non essere riusciti a trovarla in tempo, a salvarla», dice Brigitte.

Perché Gertrude poteva essere salvata. Al processo, una testimone racconterà di aver sentito la ragazza «chiedere «aiuto, in italiano e in tedesco», «disperatamente», per «tre giorni»; di aver persino incontrato l’assassino, la “bestia”, lungo il sentiero. Ma di non aver detto niente «per paura». «Le ricerche di mia zia - dice Brigitte - sono iniziate 5 giorni dopo la scomparsa. L’allarme dalla scuola è stato dato con incredibile ritardo. Mia mamma mi raccontava che, appena saputo, lei, sua madre e il padre sono saliti a San Genesio. Hanno partecipato alle ricerche, sentito la gente del posto. Ma nessuno aveva visto niente...». Invece le cose stavano diversamente. Oltre alla testimone rimasta zitta, molti decenni dopo si è saputo che Guido Zingerle era un personaggio noto tra i masi del Guncina. «E che quando passava lui, i padri nascondevano le figlie in cantina. Mia madre si è chiesta tutta la vita perché? Perché nei giorni della scomparsa, e anche dopo, nessuno abbia detto una parola. Perché non l’hanno denunciato?». Cristina Kutin ha portato dentro un dolore enorme anche perché, oggi come allora, quando una donna scompare, le maldicenze, gli schizzi di fango prevalgono sulla realtà. La vittima non è più vittima, ma il perno di un romanzo morboso. «Fino al ritrovamento del corpo, sono state diffuse le ricostruzioni più incredibile. Che era una fuga d’amore. Che l’avevano vista in Svizzera. Che era scappata coi gioielli di famiglia... Che aveva l’amante...». Tutte panzane. «Mia madre e mia nonna Josefine, ne hanno sofferto moltissimo. “Chiunque conoscesse Trude - ripeteva mia mamma a polizia carabinieri e giornalisti -, sa che sono bugie. È una ragazza brava, acqua sapone, anche timida...”». Nei mesi della scomparsa sarà la madre delle due ragazze, con incredibile energia e tenacia ad andare di persona da carabinieri e polizia, per chiedere di continuare le indagini, di non mollare: «Qualcuno le ha fatto del male. Non sarebbe mai andata via da noi, ci voleva troppo bene...». Come detto, il 15 marzo 1947, mette fine ad ogni illazione, ad ogni fantasia. Altro che fuga. Trude è stata massacrata. Il 20 marzo Josefine riconosce ufficialmente il cadavere. Il 21 marzo centinaia di persone partecipano ai funerali al cimitero di Oltrisarco. Due giorni dopo Josefine Kössler Kutin muore. Di crepacuore. È la seconda vittima di Guido Zingerle. Cristina è la figlia maggiore, tocca a lei occuparsi dei tre fratelli minori (il più piccolo ha 4 anni) e del padre Eduard, un uomo segnato dalla guerra e dalla morte di figlia e moglie. Cristina, che ha un anno meno di Trude, ha studiato da maestra. Inizia a lavorare:incarichi annuali nelle scuole di mezzo Alto Adige. China la testa e tira avanti. Ottiene un alloggio popolare in un palazzo di Corso Libertà. Ci va a vivere con i fratelli e il padre, cercando di ricomporre la famiglia, di tenerla unita. «Dobbiamo stare stretti come un pugno - dice - , rispettarci e difenderci». Nei primi anni ’50 si sposa. È una bella donna, simpatica, socievole. Assomiglia a Gina Lollobrigida. In tutto il quartiere la chiamano «la Lollo di Gries». Ha due figli, Brigitte e Günther, che ama moltissimo. Ma anche un fondo di tristezza, forse di disperazione, che non l’abbandona mai. E sempre quel tarlo: perché chi sapeva è stato zitto?

L’assassino, Guido Zingerle, viene preso nell’estate del 1950, dopo aver ammazzato un’altra donna in Tirolo, e rapito e tentato di uccidere una ragazzina di 15 anni a Cornedo. È un maniaco sessuale, un serial killer, uno psicotico, che non esita a definirsi “malato di mente” per scampare alla galera. Il primo novembre 1951 si apre il processo a Bolzano. Cristina Kutin non se la sente di andare. Ci vanno il padre Eduard e il marito. «C’erano centinaia di persone - prosegue Brigitte - la gente voleva linciarlo». Viene condannato all’ergastolo. Muore nel carcere di Turi il 9 agosto del 1962. Senza mai aver chiesto scusa né perdono. «Il periodo del processo - continua Brigitte - fu molto duro per nostra madre. Mi chiedo ancora come mai nessuna istituzione pubblica si sia posta il problema di garantirle un sostegno psicologico, un supporto...». Cristina resta sola. Ma resiste. E quando serve tira fuori le unghie. Vicino a Cologna, all’imbocco del sentiero dove la belva l’ha rapita, c’è un croce che ricorda Trude. L’hanno messa gli abitanti del posto dopo l’omicidio. Cristina sale solo una volta. Ma sta così male (ed è così arrabbiata) che lassù non rimetterà più piede. «Potevano salvarla ma non l’hanno fatto» ripete. Cancella il Guncina dalla carta geografica. Il pensiero che la tormenta, e che la tormenterà fino alla fine, sono i tre giorni passati (viva) da Trude nelle mani di Zingerle. «Cosa avrà pensato? Quanto avrà sofferto? Quante volte mi avrà chiamata?». Cristina sa però che deve anche garantire serenità alla sua famiglia, ai suoi figli. «La morte della sorella era un incubo, ma è riuscita per molto tempo a gestire il dolore senza farcelo pesare. E, anzi, a garantirci una vita felice. E di questo, io e mio fratello, la ringrazieremo sempre».

I decenni passano, il caso della “maestrina di Cologna”, riemerge ciclicamente. I giornalisti chiamano ad ogni anniversario, escono dei libri, persino, qualche anno fa, uno spettacolo teatrale. Il problema è che il protagonista della storia è sempre lui, Zingerle. Il mostro. La bestia. Mentre Trude, la vittima, diventa un personaggio secondario. Una comparsa. «Quell’animale sembra quasi un eroe», ringhia umiliata Cristina. Lei sa che Zingerle era solo un assassino di donne. Un vigliacco bastardo.

Brigitte racconta poi un altro episodio capitato a lei pochi anni fa. «Mi trovavo in un maso di San Genesio. Venne fuori il discorso di mia zia. Venni aggredita a muso duro da una donna che mi disse essere parente di un uomo del posto finito in carcere sospettato dell’omicidio. Sembrava quasi che la colpa fosse nostra, di mia zia, intendo. Della famiglia che cercava la verità...».

Trude Kutin riposa nella tomba di famiglia a Oltrisarco, insieme a Josefine e Cristina. Ci sono ancora delle “maestrine”, sue amiche, che portano fiori e candele.

Nell’appartamento di Corso Libertà, Cristina è restata fino all’ultimo giorno, assistita dai figli e dai nipoti, Stephan e Manuel, che adorava. Dice Stephan: «Con noi non parlava della zia Trude, ci proteggeva. Ma una cosa pretendeva: che a qualunque ore rincasassimo, fossero anche le 4 del mattino, entrassimo nelle sua stanza a dirle che eravamo a casa. Solo allora, quando la famiglia era tutta unita e al sicuro, finalmente si addormentava...».













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