A far paura è (anche) il covid economico



L’altro covid, quello che colpisce l’economia e la società, è nella fotografia (in nero e nero, verrebbe da dire) scattata in questi giorni dall’Istat: tra febbraio 2020 e febbraio 2021 un milione di occupati in meno e - anche dalle nostre parti - un popolo (sono 717 mila gli scoraggiati) che un lavoro non lo cerca nemmeno più. Il rapporto, per la prima volta, non considera occupato chi è da oltre tre mesi in cassa integrazione. Il che può far sballare le statistiche, ma certifica una verità: la pandemia ha tagliato le gambe al Paese, rendendo ancor più precario chi viveva già una condizione di insicurezza (di prospettive) sul lavoro: i giovani e le donne, prima di tutto.

Le recessioni profonde - ha detto Gita Gopinath, capo economista dell’Fmi - spesso lasciano cicatrici di lunga durata, in particolare per la produttività. La cassa integrazione rinvia, se così si può dire, un’altra nera verità: chi non può licenziare per legge, ha solo rinviato la decisione. Perché molte imprese non riapriranno, molte saracinesche non si rialzeranno. Chiedendo di rinviare alla fine della campagna vaccinale le protezioni previste per i lavoratori, i sindacati dicono giustamente di voler evitare lo tsunami sociale. Ma lo tsunami c’è già. Passa dalle fabbriche e arriva in scuole che cercano faticosamente di ripartire dopo mesi di una didattica a distanza che ha lasciato per strada fin troppi studenti rimasti di fatto sconnessi. Passa dalle famiglie che vivono nuove difficoltà a paesi e città che stanno cambiando volto e connotati.

L’ex ministra Elsa Fornero parla di perdite di prospettive, di saperi, di motivazioni e di intraprendenza. Il danno più grave - aggiunge - è la perdita di “capitale umano”, che comprende non solo la possibilità di lavorare, ma anche la capacità (di lavorare). E Tito Boeri ricorda che le donne sono state le principali vittime della crisi: nel commercio, nella ristorazione e nel turismo rappresentano (forse bisognerebbe dire rappresentavano, considerata la situazione) più del 50 per cento dei lavoratori con contratti a tempo determinato e la chiusura delle scuole ha caricato quasi interamente sulle loro spalle la cura dei figli. Il lavoro - sostiene l’economista - è cambiato in modo irreversibile: l’esercito degli inattivi non si scioglierà come d’incanto quando tornerà la normalità.

Questo territorio, per le sue caratteristiche (il turismo, ma anche l’innovazione e il commercio) e per la sua autonomia, può e deve fare molto per creare fin d’ora le basi per quelli che dovranno essere tempi migliori. Aspettare che tutto riparta come se niente fosse non è la soluzione. Sperare che facciano tutto lo Stato e l’Europa nemmeno. Serve qualcosa che vada ben al di là della vecchia logica dei contributi (che troppo spesso hanno anestetizzato e non certo stimolato l’intera comunità) per far ripartire non solo un’economia, ma una società che ha bisogno di speranza, di ottimismo, di concretezza, di certezze.













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