MEMORIA

Addio a Ottorino Bovo, l'ultima foto prima di morire con la fascia da partigiano

Cordoglio a Bolzano. Si è spento a 96 anni l’ultimo testimone della strage del 3 maggio 1945 in Zona industriale. È stato lui, colpito da due pallottole,  a soccorrere i sopravvissuti. «Non dimenticate quello che è accaduto»


Luca Fregona


Bolzano. Era lo scorso 19 maggio, un martedì, alle tre del pomeriggio nella sua casa di via Nazario Sauro. La camicia blu che gli piaceva tanto. I pantaloni prefetti, stirati con cura dalla nuora Marietta. I capelli candidi ben pettinati. Gli occhi grigio azzurri come quelli di certi gatti. E poi la cosa più importante: la fascia tricolore del Comitato di Liberazione Nazionale al braccio sinistro. Il bianco un po’ ingiallito, ma il verde e il rosso ancora vivaci. La stessa fascia che portava il 3 maggio del 1945. Sapeva che non gli restava molto tempo, Ottorino Bovo. Ha voluto ci vedessimo un’ultima volta. Per avere la sicurezza che la sua storia, e quella degli operai fucilati quel giorno al muro della Lancia di Bolzano, non andassero perdute insieme a lui, l’ultimo testimone. Mi ha ripetuto tutto per filo e per segno, prendendosi una pausa solo per le lacrime. Alla fine, ha messo la sua mano sopra la mia e l’ha stretta come una tenaglia. Gli ho giurato che avrei mantenuto la promessa. Ci ha lasciati la scorsa notte, Ottorino. Aveva 95 anni. Un uomo retto e buono. I funerali si terranno mercoledì 22 luglio alle 11 nella chiesa del Santissimo Rosario.

Questo è il suo racconto.

***

Due pallottole: una di striscio, l’altra di rimbalzo. «Qui e qui», Ottorino Bovo passa la mano sul fianco destro, all’altezza dell’anca. Poi trascina le dita sullo sterno. «Qui e...qui», ripete. Sono passati 75 anni. Le cicatrici fanno ancora male. «Mi hanno colpito due volte, ma non mi hanno ammazzato...». Lo dice così, senza enfasi e senza vendetta. Tre maggio 1945. Zona industriale, via Volta (all’epoca via Razza). La mattina della strage degli operai. L’eccidio dimenticato. Ottorino Bovo era lì. Ha visto. Ha raccolto i corpi dei sopravvissuti. Tenuto tra le braccia i moribondi. Consolato le madri, le spose e i fratelli.

La memoria è di ferro. I dettagli precisi. Parla lento. A voce bassa. Il suo racconto scorre come un fiume profondo e oscuro. Trascina indietro nel tempo. Alla Bolzano buia della guerra. Le SS, la Gestapo, la violenza, i fascisti, le spie, i traditori.

Tra queste strade che “abitiamo” tutti i giorni e che non ci dicono più niente. Ma che sono zuppe di sangue. Poche centinaia di metri tra le fabbriche della Zona industriale, dove oggi ci sono l’Iveco, la Metro, via Buozzi, la palestra aperta h24.

Ottorino è un uomo magro, col viso buono, i capelli candidi a zazzera. Faceva parte della formazione partigiana Giovane Italia. «Sia chiaro - avverte -: non sono un eroe. Non ho combattuto. Facevo la staffetta tra Bolzano e Trento portando ordini e documenti. Certo, la Gestapo mi stava addosso. Ma l’unico colpo che ho sparato in vita mia, è stato prima dell’8 settembre al poligono, quando sono andato sotto le armi». La sera del 2 maggio 1945 viene convocato dal Comitato di Liberazione alla Lancia (oggi Iveco) per fare la guardia allo stabilimento. Bolzano era piena di soldati tedeschi sbandati che razziavano tutto quello che potevano. «Alla Lancia trovo un ufficiale degli Alpini, Vittorio Giaccone, di Giustizia e Libertà, che aveva ordini precisi su come dovevamo comportarci. Fu molto chiaro: ci disse che dovevamo favorire la ritirata dei tedeschi evitando spargimenti di sangue. Dovevamo impedire che succedesse quello che era accaduto altrove: sparatorie, vendette, morti inutili a guerra finita».

Ottorino Bovo ha 20 anni. Dopo l’8 settembre si è nascosto in Veneto, poi è tornato a Bolzano. «Per l’esercito ero uno sbandato, ma riuscii a farmi assumere alla Sip e, nella confusione di quei mesi, a ottenere l’esonero dal servizio militare nella Repubblica sociale». La Sip, Società idroelettrica piemontese (che poi si occuperà di telefoni, ndr), gestiva la centrale elettrica di Cardano. «Quella sera alla Lancia ero l’unico che non lavorava in Zona, gli altri erano tutti operai. Il tenente Giaccone ci diede un’arma a testa. Moschetti, pistole, qualche fucile. Ero di guardia all’entrata, dove c’era il gabbiotto del custode che dà su via Volta. Dovevo tenere la postazione da solo. Gli altri coprivano gli ingressi secondari». Giaccone, che è più vecchio ed esperto, insiste: «Non fate cazzate, evitate che altri ne facciano, e poi vediamo cosa succede domani». Gli americani sono alle porte della città. «I tedeschi sono più stanchi di noi - dice Giaccone -. Vogliono solo tornarsene a casa. Lo so, vorreste appenderli ai pali della luce. Ma se si presentano, fateli prigionieri, trattateli bene e non rubate loro niente». Durante la notte per quattro volte, a gruppi di due, soldati tedeschi entrano alla Lancia. Mitra in pugno, cercano biciclette per lasciare la città. E per quattro volte Ottorino Bovo obbedisce a Giaccone. Li disarma. Li fa prigionieri. E li rinchiude nel rifugio anti-aereo della fabbrica. «Erano docili. Non opponevano resistenza. Erano quasi contenti li avessimo presi. Erano soldati della Wehrmacht, non fanatiche SS. Se volevano da bere, glielo davo. Uno aveva due zaini pieni di sigarette e biscotti. Ho preso solo i dolci perché erano due giorni che non mangiavo».

L’alba del 3 maggio 1945

L’alba arriva carica di tensione e incertezza. Bovo ha una visuale aperta su via Volta, l’arteria principale della Zona, che va dal sottopasso di Oltrisarco a Ponte Resia. «Gli operai erano al lavoro anche se nessuno sapeva cosa sarebbe successo». Verso le 7 e mezza la situazione precipita. Qualcuno spara su una topolino con due ufficiali tedeschi a bordo. «Ho sentito il colpo venire dai tetti della Lancia. Ho visto il finestrino dell’auto in frantumi. I due tedeschi si sono fermati davanti alla guardiola e hanno lanciato una bomba a mano in strada. In quel momento è arrivato un ragazzino in bicicletta. Avrà avuto 15 anni. “SCAPPA, SCAPPA”, gli ho urlato. La bomba è esplosa. Le schegge lo hanno colpito. Ma non è morto. Alcuni operai lo hanno preso e portato dentro. Mi hanno detto che si è salvato ma non l’ho mai più rivisto... Poi è calato un silenzio da tomba. Quasi irreale».

Pochi minuti e dal sottopasso di Oltrisarco sbuca un camion pieno di sbandati tedeschi. Quando passa sotto la Lancia, dal tetto gettano una bomba a mano. Tre tedeschi muoiono sul colpo, altri rimangono feriti. «Siamo usciti in strada, i soldati sono scesi dal carro con le mani in alto. Li abbiamo fatti prigionieri. Poi abbiamo preso i tre cadaveri e li abbiamo nascosti negli armadietti della Lancia per evitare rappresaglie. I feriti sotto shock non si erano nemmeno accorti dei morti. Tutto doveva finire lì. Volevamo finisse lì».

Ma è troppo tardi. «Si sentivano colpi un po’ dappertutto e non si capiva chi sparava a chi. Parlo con Giaccone. Mi dice che ha provato a fare un giro delle fabbriche dicendo di non sparare. Ma che erano state distribuite le armi nonostante l’ordine di evitare incidenti. Visto che conoscevo bene la Zona, mi offro di uscire dalla Lancia e di andare io a provare a parlare con gli operai». Giaccone non vuole ma poi cede e gli dà il permesso. «Esco su via Volta. Vado in direzione ponte Resia. Ho messo il fazzoletto bianco alla bici, e la fascia tricolore del Cln al braccio. Avevo anche un’arma. Niente si muoveva. Pochi metri e sento sparare di nuovo. I tedeschi avevano piazzato una mitragliatrice MG in mezzo a via Pacinotti, davanti alla Saffa, dove oggi c'è il parcheggio della Metro. Sparavano su via Volta. Un proiettile mi colpisce di striscio all’anca. Scappo tra la Montecatini e la Magnesio (oggi via Buozzi) e mi butto in un cespuglio».

Dalla Magnesio lo vedono: “STAI FERMO - urlano gli operai -, VENIAMO A PRENDERTI”.

Ma Ottorino sa che a 50 metri c'è un mitragliatore puntato che spara alzo zero.

«NON MUOVETEVI PER L’AMOR DI DIO - grida -, NON VENITE. E NON SPARATE!, NON SPARATE!».

Ottorino aspetta pancia a terra. «Ero convinto mi avrebbero ammazzato, ho “salutato” i miei genitori. Pregavo e piangevo...». Poi ritrova la forza. Striscia sui gomiti, perde sangue, ma è cosciente. Riesce a raggiungere la Magnesio. Arriva l’ambulanza. Un Lancia 3Ro, un camion col cassone, il telo sopra e il simbolo della Croce rossa sulle fiancate. «C’erano due autisti. Quello alla guida si chiamava Grassili. L’altro faceva da infermiere». Il camion esce su via Volta. Arriva una raffica sul fianco del cassone. Il camion fa testa coda. Il camion si blocca in mezzo alla strada. I due autisti saltano a terra e rientrano alla Magnesio. Ottorino si “schiaccia” sul fondo del cassone. «Tenevo le braccia aperte in segno di resa». Parte un’altra raffica. Sparano alto. I colpi prendono la centina in ferro del telone. Un proiettile rimbalza e lo colpisce allo sterno. «Il colpo è arrivato "floscio", di sponda, ma non è riuscito ad entrare. Ero ancora vivo».

La strage

Un soldato tedesco infila il mitra dal basso verso l'alto dentro il cassone. «Vede che sono sporco di sangue e ho la fascia del Cln. Fa un gesto con la mano. Chiama gli autisti dalla Magnesio. Poi ci indica il muro della Lancia, a 50 metri. “Andate là, schnell”. Una scena orribile, avevano appena fucilato quei ragazzi...». Sono le 9.30 del 3 maggio 1945. Su ordine delle SS, un autoblindo di paracadutisti ha sparato su 18 operai messi al muro dopo il rastrellamento delle fabbriche. Li hanno presi alla Sida, alla Saffa, alla Ceda, alla Lancia. Una strage. «Molti li conoscevo, era gente che quella mattina era lì solo per lavorare. Non c’entravano niente con gli scontri e i partigiani. I corpi erano uno sull'altro. Gli hanno sparato due volte: la prima raffica ad altezza d’uomo, la seconda quando erano a terra». In cinque sono feriti ma ancora vivi, “salvati" dai cadaveri dei compagni che hanno fatto da scudo. Sono Andrea Cavattoni, Vittorio Luise, Bruno Bovo, Antonio Peretto e Walter Saudo.

«È stato un ufficiale tedesco ad impedire il colpo di grazia ai feriti». Con i mitra puntati dicono a Ottorino di portarli via. «Peretto era gravissimo. Lo conoscevo bene. Lo avevano colpito alla testa, il sangue colava sul viso. Poi ho caricato Bruno Bovo. Aveva dei proiettili in pancia e sul braccio. Ma era cosciente. “Aiutami Bovo - mi diceva - mettimi sul cassone”. Avevamo lo stesso cognome ma non eravamo parenti». L’ambulanza parte. «Ho preso Peretto tra le braccia. Lo stringevo forte. Lo tenevo su, ma lui non reagiva...». L’ospedale è in via Fago. «Ci siamo fermati alle Semirurali per caricare un bambino ferito. Il papà era stato ucciso dai tedeschi. Un’altra fermata l’abbiamo fatta a Cristo Re per prendere la presidente della Croce Rossa, la contessa Fox e un padre Bellagamba. Lei mi chiese se sapevo qualcosa del figlio. Ma io non avevo notizie. Era una città sull'orlo della disperazione».

Durante il tragitto Antonio Peretto muore tra le braccia di Ottorino. Walter Saudo tra quelle di Andrea Cavattoni. «All’obitorio erano stati portati tutti i morti di quella maledetta giornata, più di trenta: i fucilati di via Volta, gli operai giustiziati dentro le altre fabbriche e quelli uccisi durante gli scontri. Verso sera arriva il fratello di Peretto. "Mi hanno detto che hanno ammazzato Antonio”, dice. Io rimango zitto e lui capisce». Arriva la mamma di Ermanno Bonani, un ragazzo di soli 18 anni ucciso all’interno della Lancia insieme a ad un altro operaio di 19 anni, Irfo Borin. Giustiziati con un colpo alla testa. «Quella mattina, prima del casino, avevo parlato a lungo con Bonani. Un bravissimo ragazzo. Poco dopo che ero uscito dalla Lancia, i tedeschi sono entrati e li hanno messi tutti in riga. Ermanno l’hanno trovato con una pistola in tasca e l’hanno ammazzato come un cane».

Ottorino accompagna la mamma di Ermanno all’obitorio.

«I cadaveri erano tutti coperti da un telo. Sbucavano solo i piedi. Lo ha riconosciuto dai calzini. “Li ho fatti io”, ha detto. E intanto piangeva...».

 













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