Antonio Megalizzi, morto al fronte dell'assurdo



Morire in guerra. In tempo di pace. Colpiti da un killer che ha la tua età. Che non ti conosce. Che non sa nemmeno perché tu stia passando a pochi metri da lui. Freddati da uno spietato assassino che in te vede l’intero Occidente: un pezzo di mondo che odia forse senza nemmeno sapere perché.

È morto al fronte dell’assurdo, Antonio Megalizzi. Per qualche ora abbiamo sperato che quella pallottola si potesse estrarre dal suo corpo. Abbiamo tutti coltivato quella che sapevamo fin dal primo istante essere un’illusione.

Perché è impensabile morire a 29 anni senza una ragione che non sia quella di essere passati da un mercatino di Natale, in un posto magnifico come Strasburgo, nel momento sbagliato.

Da una parte, in quella piazza passata dalla spensieratezza al terrore in pochi secondi, c’era l’amore di Antonio Megalizzi: per lo studio; per quest’Europa che è simbolo di convivenza reale; per la politica del dialogo; per il giornalismo scritto sul blocco dei sogni, dove cambiare il mondo è obiettivo quotidiano, approdo possibile; per la sua Luana, fidanzata capace di condividere passioni, interessi e obiettivi; per la vita da costruire ogni giorno con mattoni fatti di sorrisi; per la sua famiglia, per gli amici, per l’orizzonte europeo dei suoi pensieri.

Dall’altra, in quella piazza diventata l’epicentro di una guerra che è attorno a noi e che potrebbe palesarsi in ogni momento e in ogni luogo, l’odio di Cherif Chekatt, belva prima ferita e poi uccisa dagli agenti: odio per questo nostro mondo; per la nostra vita; per la nostra normalità. Perché Strasburgo, città a pochi passi dal confine, luogo simbolo delle istituzioni (e delle contaminazioni) europee, è la nostra normalità. La nostra vita. La nostra famiglia. Il nostro Natale. E Antonio è il figlio che abbiamo o che vorremmo avere: cittadino di un’Europa che è nelle storie che stanno costruendo proprio questi giovani armati “solo” di lingue, d’entusiasmo e di conoscenza. Giovani che vivono in territori che non sono nelle carte geografiche che abbiamo studiato noi: i confini, per questa generazione che sta riempiendo il futuro, sono fili di seta. I confronti fra culture diverse sono ricchezza. Le amicizie sono trasversali, internazionali, senza barriere culturali.

Ma il rancore, il credo, la violenza, la rabbia assassina di Chekatt non abitavano in questa dimensione. Vivevano nell’assurdità cieca di questa follia che spinge a sparare alla prima persona che incontri. Trasformandola in simbolo, emblema, icona di un non meglio definito pianeta nemico.

Antonio è morto davvero al fronte. Precipitando dalla gioia di una serata piena di progetti di lavoro e di vita al tunnel del terrore. Una tragedia come questa - per usare le parole del presidente Mattarella - è inaccettabile. Persino insensata. Perché non rende sola e disperata solo la famiglia di Antonio, i suoi amici e i suoi colleghi, la sua comunità di studiosi e sognatori, ma rende più sola l’intera Europa, un pezzo di mondo che convive da anni con la paura e che ogni volta che faticosamente rialza la testa finisce per scoprire che basta un pazzo che passa da un carcere all’altro per riaccendere la benzina del terrore.

Sì, oggi siamo tutti più soli. Disperati naufraghi in un pianeta che cambia connotati, che rovescia persino il Natale, spazio di infinita gioia che i terroristi amano occupare di anno in anno, facendone un angolo buio.

È facile dire che la vita deve continuare. Che non ci dobbiamo piegare. Che non possiamo farci travolgere dalla paura. Ma è facile anche farsi prendere dallo sconforto. Perché Antonio Megalizzi non era un militare in una missione impossibile: era un ragazzo, era il nostro futuro, era il simbolo di una generazione fatta di speranza, anche di sana utopia, di magnifico ottimismo. Guardate le foto che anche noi abbiamo pubblicato: Antonio sorride in tutte. Perché crede in ciò che fa, in ciò che vuole, in ciò che insegue. E quel sorriso non può morire.

Alberto Faustini













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