la storia

Benito Torricelli, il carabiniere bolzanino che liberò dal ghiaccio i morti della sciagura aerea del Monte Giner

Il 22 dicembre 1956 il DC3 di linea tra Roma e Milano si schiantò sulle montagne del Trentino. Morirono tutte le 21 persone a bordo. Benito Torricelli portò a valle i corpi della hostess e del pilota a 30 gradi sottozero. Poi svenne e fini in ospedale con un principio di congelamento all'addome e alle mani. A bordo c'era anche un dirigente americano della Coca Cola. L'azienda diede un premio di 3 milioni ai carabinieri saliti in quota che venne destinato agli orfani dei caduti in servizio


Luca Fregona


Bolzano. La donna, la hostess, era sotto l’ala. Un casco di capelli color rame increspati dal ghiaccio e dal sangue rappreso. La divisa azzurra sotto il velo di ghiaccio che avvolgeva il corpo. Pochi metri più in là, il comandante. Il viso affondato nella neve. «L’abbiamo riconosciuto dal cappello, sembrava che un angelo glielo avesse messo accanto per darci un segnale». È il 25 dicembre 1956, ore 7.30 del mattino: il carabiniere bolzanino Torricelli Benito, 23 anni, è appena arrivato suo costone del Monte Giner dopo una marcia a 30 gradi sottozero iniziata nel cuore della notte. Il posto si chiama Pale Perse. Ventuno corpi sparsi nella neve come un mazzo di carte volato in aria e schiantato a terra. Ventuno cadaveri congelati, incastrati nel ghiaccio, alcuni a pezzi, altri incredibilmente intatti. È una delle catastrofi più gravi dell’aviazione civile italiana. È il disastro del Monte Giner. Segnerà ogni Natale (e molti notti insonni) del carabiniere Torricelli.

Due giorni prima

Sabato 22 dicembre 1956: il DC3 “Roma-Milano”, della compagnia area Lai (Linee aeree italiane) decolla da Ciampino alle 16.09. È un “Dakota”, un bimotore vetusto da 25 posti, utilizzato durante la guerra per il trasporto truppe. Il volo dura due ore. L’atterraggio è previsto alle 18.10 a Malpensa. A bordo 21 persone: l'equipaggio e 17 passeggeri.

Carlo Bardelli è un tecnico specializzato in opere idrauliche, gira il mondo per lavoro. Sta rientrando dall’Arabia Saudita col cuore spezzato. È in viaggio da due giorni. È in lutto. Sua moglie è morta mentre lui era lontano. È l’unico che non pensa al Natale.

Gli altri sono commercianti e uomini d’affari che tornano a Milano per le feste. Molti hanno scelto l’aereo all’ultimo minuto invece del treno. «Per fare prima».

Armando De Petis, 50 anni, è titolare di un’agenzia specializzata nei cartelloni pubblicitari per i film. Giorgio Calimani ha un negozio di abbigliamento. Camillo Gariboldi è un industriale di Vigevano. Amleto Mantegazza è il segretario dell’onorevole del Psdi Matteo Matteotti, figlio di Giacomo. Ha fretta: sua moglie è in dolce attesa, questione di ore. Giuseppe Scarpari è un funzionario della Montecatini. La moglie Lilia, e le sue due bimbe, Isa di 8 anni e Rita di 4, lo aspettano per cena. Giulio Tieghi è un commercialista, la moglie gli ha detto di aspettare un giorno, di prendere il treno domani. Ma lui niente. «In aereo faccio prima, e stasera stiamo insieme».

Poi c’è Harris Gray, di Greenwood, South Carolina, Stati Uniti. È il direttore della Coca Cola per tutti i paesi del Mediterraneo. Viaggia con la moglie Eddy. In valigia hanno due bambole per le loro figlie Pamela e Connie, di 14 e 6 anni. Con loro c’è anche il responsabile per l’Italia della bibita gasata più famosa del mondo: Luciano Renieri, 35 anni, una laurea in economia. Hanno partecipato a un “meeting” di fine anno con i venditori del centro e sud Italia..

Il tempo non è buono, il vento tira forte. Il comandante Giorgio Gasperoni, 42 anni, è un pilota esperto, famoso per il sangue freddo. Uno che si è fatto le ossa in combattimento durante la seconda guerra mondiale sul cielo di Malta: tre medaglie d’argento al valore. Uno con 6.455 ore di volo, 221 traversate transoceaniche.

Il suo secondo è Lamberto Tamburinelli, 29 anni, di Pesaro. Il marconista si chiama Romano d’Amico: oggi, sabato 22 dicembre 1956, compie 24 anni. E poi c’è lei: Maria Luisa Onorati, detta Marisa, 24 anni, l’unica hostess di bordo, assunta dal primo aprile dopo due mesi di corso. Una delle “67” ragazze della compagnia che per contratto devono essere sempre “calme, gentili e sorridenti per dare tranquillità ai passeggeri”.

Il DC3 mantiene la rotta corretta fino a Genova. Alle 17.59 l’ultimo contatto radio. “Ho ghiaccio sulle ali” dice il comandante Gasperoni. Succede qualcosa. Dieci minuti di silenzio. Alle 18.10 il marconista grida “Milano!, Milano!”. Ancora silenzio. La radio tace. L’assistenza da terra li ha persi. La zona non è coperta dal radar. L’aereo - si scoprirà poche ore dopo - invece di scendere di quota per prepararsi all’atterraggio, ha virato a “destra” verso le alpi trentine, il Brenta, la Presanella, l’Adamello. È 150 chilometri fuori rotta.

23 dicembre 1956, domenica

«La mattina del 23 - racconta Benito Torricelli, che di anni ormai ne ha quasi 88 - ero di servizio in via Pacher a Bolzano, dove oggi c’è la clinica Bonvicini. Lì c’era il gruppo carabinieri comandato dal tenente colonnello Brandstätter, il padre di Gerhard, l’avvocato. Arriva la notizia che è caduto un aereo sulle montagne del Trentino e devono mandare personale per la ricerca dei superstiti».

Il maresciallo Girardi spulcia il foglio matricolare.

«Chi era nato in montagna per loro era un alpinista. E siccome io venivo dall’Appenino tosco-emiliano, da Fanano ai piedi del Monte Cimone che è alto 2155 metri, per loro, i superiori intendo, ero una specie di Walter Bonatti».

Quella mattina ne scelgono otto. «Ci caricano sul cassone telato di un camion militare. Faceva un freddo cane. Parecchi gradi sotto zero. C’era l’autista, un certo Panfili. A tutta velocità partiamo per Madonna di Campiglio. Vomitiamo l’anima per la velocità, il freddo, i gas di scarico che ammorbavano il cassone. C’era neve, come adesso. Arriviamo nel tardo pomeriggio. Ci danno da mangiare e ci sistemano nella scuola».

Carabinieri, poliziotti, finanzieri, le guide più esperte e gli alpini di leva. «Più di cinquanta uomini, forse cento. Era un vero e proprio centro di soccorso. Una cosa mai vista». Guide alpine come Bruno Detassis, la leggenda del Brenta, che ha già avviato dei gruppi di ricerca la notte del 22 e la mattina del 23 con i migliori alpinisti della valle: Cornelio Collini, Natale Vidi, Bruno e Giulio Dellagiacoma, Giordano Detassis, i fratelli Catturani, gli Alimonta, Tonino e Renzo Serafini. Si cerca di capire dov’è caduto, la zona da raggiungere. Silvano Fostini, l’addetto alla teleferica che collega la val Nambrone ai Laghi di Cornisello ha visto l’apparecchio volare in direzione nord-est verso il Monte Giner. «Era basso perché oltre alle luci di posizione di coda, ho visto la cabina di pilotaggio illuminata e grande come una finestra. Il rombo dei motori era irregolare, sotto sforzo, come se il pilota ne chiedesse il massimo rendimento senza ottenerlo. Pochi attimi dopo vidi la montagna illuminarsi». Le ricerche si concentrano sul versante sud del Giner, ma senza successo. «Quella notte - continua Torricelli- ci sistemiamo lì, sul pavimento della scuola, sdraiati per terra sulla paglia. Una specie di dormiveglia in attesa di istruzioni».

24 dicembre 1956, lunedì

«Il mattino del 24, vigilia di Natale, eravamo pronti per salire in quota ma non si sapeva esattamente dove». Gli abitanti di Celentino in val di Pejo riferiscono di aver visto verso le 18.30 del 22 un grande bagliore sotto la cima ma sul versante nord, e poi ancora fiamme e luci che “sono andate a spegnersi come lumicini solo dopo una buona mezzora”. Un ricognitore individua i resti a 2.700 metri di quota, in un declivio sotto la vetta. Lato nord. La base delle ricerche viene spostata a Ossana in Val di Sole. «Ci caricano sul camion e via di nuovo. Arriviamo a Ossana poco prima dell’imbrunire. Ci portano nei locali della parrocchia. Ci dicono di metterci in mutande. Ci danno scatole di grasso di foca contro il freddo. Ci ordinano di spalmarcelo a vicenda su tutto il corpo».

Sono attrezzati alla buona: un paio di scarponi vecchi e quelle tute di tela che “tengono più il freddo che il caldo”. «Totalmente inadatte ad un’operazione di quel tipo, ma all’epoca si sapeva poco o niente. Se non c’era il grasso di foca non so come sarebbe andata a finire. Ci ha sicuramente protetti». Li caricano sulle campagnole, le “jeep” dei carabinieri, li portano per un tratto, fino dove la mulattiera tiene. «Saliamo a piedi a Malga Bon che è già notte. Il cielo increspato. Nevicava, i fiocchi pungevano come spilli. Aghi di ghiaccio. La sensazione non era buona. C’era tanta di quella neve che la malga era sommersa fino al tetto. I malgari avevano scavato una specie di scivolo: si entrava e usciva da un’unica porta. Nel salone c’era un pentolone grande al centro. Abbiamo acceso il fuoco e sciolto la neve per fare il tè. Il fumo denso come l’inchiostro usciva da quell’unica porta. Gli occhi bruciavano, la stanza era affumicata, ma almeno non si moriva di freddo. Siamo stati lì alcune ore, rannicchiati. Non riesci a dormire in quelle situazioni». Una veglia in attesa di andare a prendere i cadaveri. «Nessuno parlava. Nessuno si illudeva di trovare dei sopravvissuti. Ero sopraffatto dalle emozioni. Hai paura ma sai che puoi solo andare avanti».

25 dicembre 1956, martedì

A guidare le operazioni è il capitano dei carabinieri Colombaro Colombatti, della compagnia di Trento. «Un alpinista espertissimo. Aveva deciso che io e una guida alpina di Trento, che conosceva il territorio come le sue tasche, dovevamo partire alle tre del mattino, raggiungere il punto della disgrazia e sistemare i segnali per fare atterrare un piccolo elicottero. Dalle carte, era stato individuato un pianoro, e in questo punto preciso dovevamo mettere a croce le bandiere italiane per far vedere ai piloti dove scendere. Tutti dovevamo portare nello zaino le attrezzature e dei ciocchi di legno. Il freddo era terribile, si doveva accendere un fuoco in quota per permettere agli uomini di resistere. Faceva 30 sottozero». La salita dura quattro ore con tratti esposti alle valanghe per gli accumuli di neve fresca.

«Io e la guida alpina arriviamo su per primi. La montagna non era impervia, ma aveva nevicato e faceva un freddo pazzesco, in certi tratti affondavamo fino al ginocchio. Siamo sul posto, verso le 7: il rosa e il viola dell’alba puntellavano un cielo limpido, azzurro, pulito. Si vedevano tutti i ghiacciai dell’Adamello, era tutto bianco». Una sensazione di stupore e meraviglia durata un battito di ciglia. «La scena che ci siamo trovati davanti era orribile. L’aereo era andato a sbattere contro la montagna: si era spezzato in due. Parte delle carlinga era intatta. La coda piantata nella neve. Infilzata come una lama nel burro. Nella toilette c’era ancora la lampadina accesa. I motori erano andati distrutti nell’impatto contro la roccia: una grossa macchia nera. I detriti erano disseminati in un raggio di trenta di metri». Vestiti, valige squarciate e spalancate, frammenti di pantaloni, giacche, maglioni, giocattoli, un paio di occhiali, una testa di bambola, i vassoi per il servizio a bordo, il libro in inglese della signora Harris...

«I corpi sparsi dappertutto, orrendamente mutilati, sepolti da una coltre di neve fresca. Alcuni incastrati tra le lamiere. Se qualcuno era sopravvissuto, è morto per il freddo. Non si resiste una notte a quelle temperature, figuriamoci due. Mettiamo le bandierine sul pianoro, ma è subito chiaro che l’elicottero non sarebbe mai potuto atterrare, le condizioni meteo erano proibitive. Faceva troppo freddo, le pale si ghiacciavano».

Torricelli si concentra sul recupero delle salme. «Sotto l’ala di sinistra c’era la hostess, più in là il comandante Gasperoni. Lo abbiamo identificato dalla divisa e perché accanto c’era il berretto con i gradi. I corpi erano congelati. Quando sono arrivate le squadre con le “Akja”, le barelle toboga per il soccorso su neve, abbiamo liberato le salme da quella bara di ghiaccio con piccoli colpi di picozza. Le abbiamo infilate nei sacchi, cercando di non danneggiare i cadaveri. Con la picozza rischiavamo di profanarli una seconda volta. Non erano più delle persone. Erano blocchi di ghiaccio e roccia. Carichiamo con delicatezza la hostess e il capitano sulla slitta toboga. Avevo 23 anni ed erano le prime vittime di morte violenta che vedevo in vita mia. Una cosa del genere ti segna per sempre. Era la mattina di Natale. Non te lo puoi più dimenticare».

Intanto arrivano le altre squadre per recuperare gli altri corpi e i resti dei corpi. «Noi, arrivati per primi, eravamo ormai allo stremo. Ho detto al capitano che dovevamo scendere subito, avevamo già i sintomi della ipotermia. I brividi, la testa che gira. Abbiamo preso la barella coi due corpi e siamo partiti per portarli a valle. Io ero dietro, facevo da frenatore, altri due guidavano davanti con le stanghe. Siamo partiti da lassù, la discesa tirava, la slitta accelerava come una palla da bowling lanciata su un pista di ghiaccio. E io frenavo, frenavo, frenavo. Frenavo da dietro, perché la slitta non prendesse velocità e andasse a sbattere chissà dove, violentando un’altra volta quei poveri corpi. Ho fatto tutto il “viaggio” con il sedere incollato al ghiaccio, puntando gli scarponi, tenendo salda l’estremità del toboga. Combattevamo contro il ghiaccio e la montagna, aggrappati con ogni muscolo per domare la slitta. Per riportare quelle vite spezzate alle loro famiglie, ai loro cari. Abbiamo dato tutto. Quando siamo arrivati alla strada non avevo più i calzoni, consumati dal ghiaccio. Abbiamo caricato i corpi sulle campagnole. Eravamo al limite delle forze. Poi ci hanno accompagnato in un albergo a Ossana. Era pieno zeppo di fotografi, di giornalisti. Ricordo a malapena che una giornalista, una donna, mi slacciò gli scarponi. Poi il buio. Ero sfinito. Mi sono risvegliato all’ospedale di Cles con un principio di congelamento della zona addominale e alle mani. Sono rimasto ricoverato lì per diciotto giorni, e poi altri 30 all’ospedale militare di Bologna».

La “tragedia del Monte Giner” riempie le prime pagine di tutti i giornali. Sul Corriere della Sera Dino Buzzati scrive: «Se spaventoso è sempre il balzo giù nel buco nero della morte, in questo caso il precipizio ha raggiunto il massimo orrore concepibile: proprio perché era la vigilia di Natale. Nulla infatti è più antitesi della morte che il Natale».

La “scatola nera” ancora non esiste. Si azzardano ipotesi sulle cause: un errore del pilota, un’avaria, le condizioni meteo che l’hanno portato fuori rotta, le condizioni (pessime) del “Dakota”, la manutenzione (pessima) della flotta Lai che ha apparecchi vecchi e inaffidabili. Polemiche sulla mancanza di un radar in un zona di traffico aereo così intenso. Dubbi sulla “efficienza” dell’assistenza da terra. La commissione d'inchiesta parlamentare non arriva però a nessuna conclusione. L’inchiesta giudiziaria si arena nel 1961 con l’archiviazione: l’incidente si è verificato per “circostanze sfortunate e fatali”. Troppi interessi in ballo. La Lai viene sciolta e fusa con Alitalia. La tragedia del Monte Giner dà comunque una forte spinta al rinnovamento del trasporto aereo civile in Italia e ai protocolli di sicurezza, e anche alle tecniche di soccorso e ricerca in ambito alpino.

Il carabiniere Torricelli

E il carabiniere Torricelli? Benito riceve l’encomio solenne dell’Arma «per aver portato in spalla per molte ore in condizioni proibitive notevole quantità di materiali e rifornimenti. Per essersi a lungo prodigato nella rimozione delle salme. Per il trasporto delle salme a valle venendo colpito da congelamento».

Il vice-presidente della Coca Cola Export Corporation John Talley gli manda un messaggio in ospedale «per l’ammirevole prova d’abnegazione da lei dimostrata. Siamo ben consapevoli di dovere al gesto di umana solidarietà Suo e dei suoi compagni l’adempimento della pietosa opera di restituire ai loro familiari le salme delle vittime». La Coca Cola devolve un premio di tre milioni di lire ai carabinieri che hanno partecipato ai soccorsi. L’Arma gira la somma agli orfani dei caduti in servizio. «Giusto così - dice Benito -. Era solo il nostro dovere».

La lettera però che conserva nel cuore è quella che gli mandano, a lui e ad altri due carabinieri, proprio i bambini dell’orfanotrofio di San Mauro Torinese. “Carissimi papà, così vi chiamiamo perché voi ci ricordate i nostri papà per l’eroismo e lo spirito di sacrificio. Noi, dal nostro cuore, abbiamo sentito il bisogno di scrivervi, per farvi presente che vi vogliamo bene e preghiamo la Virgo Fidelis che vi faccia guarire presto».

Benito Torricelli legge a voce alta. Poi la poggia sul petto.

«È la medaglia più bella che abbia mai ricevuto».













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