Bianciardi e la vita agra (e precaria)
Parliamo di romanzi, di lavoro, e di conflitti sociali, come avevamo anticipato l’ultima volta prendendola da lontano, ovvero dal romanzo vittoriano, che si colloca nel pieno della seconda rivoluzione industriale, un’epoca contrassegnata da cambiamenti epocali, che riguardano tanto le città raccontate da Dickens quanto le campagne delle sorelle Brontë. Nel romanzo vittoriano abbondano orfane e orfanelli, passioni che la morale corrente e i precetti religiosi non riescono a sedare, eredità o adozioni che risolvono i problemi esistenziali dei protagonisti. Ci sono anche (a volte) le nuove povertà, e l’inquietudine generata dalla lotta di classe trasfigurata forse in quella soprannaturale del romanzo gotico (Dracula su tutti).
Ma venendo ai giorni nostri, quindi a qualcosa di un po’ più riconoscibile, e trasferendoci dall’Inghilterra all’Italia, che cosa troviamo? No, non i pescatori di Aci Trezza, mi riferisco a qualcosa di più recente di più vicino a noi, all’Italia del secondo dopoguerra, delle grandi migrazioni interne verso i centri industriali del Nord, Milano, o anche Bolzano. Un nome su tutti: Luciano Bianciardi, il giornalista e scrittore grossetano trapiantato a Milano, che nel 1962 pubblica quel romanzo sulfureo, céliniano (ma meno aggressivo), sincero fino al midollo che porta il nome de “La vita agra”.
Nel romanzo di Bianciardi (l’autore scrisse anche altro, intendiamoci, ma rimaniamo su questo libro epocale) il lavoro è presente fin dall’antefatto: l’incidente della miniera di lignite Ribolla, in Maremma, gestita dalla Montecatini, in cui persero la vita 43 lavoratori.
È per vendicare quei morti che l’alter-ego letterario di Bianciardi (siamo già nel territorio dell’autofiction, molto prima che questa parola venisse coniata) sale a Milano, lasciando a Grosseto la famiglia. Per far esplodere il “torracchione”, il grattacielo simbolo del potere non solo della Montecatini ma dell’intero sistema economico-industriale, un sistema che sta trasformando radicalmente il volto del Paese.
Il Bianciardi giornalista e scrittore avrebbe potuto scrivere un libro – magari un romanzo, se non fosse così difficile fare di un operaio o di un minatore il protagonista di un romanzo, e infatti pochi lo fanno - ma invece decide di compiere la sua vendetta con un gesto iconoclasta. Solo che, e qui sta la modernità de “La vita agra”, in realtà non solo non lo fa, ma non ci prova nemmeno. Milano lo fagocita. Ed è la Milano non delle fabbriche ma del precariato intellettuale, del lavoro, non meno faticoso, a cui il protagonista si piega per sbarcare il lunario, esattamente come tanti altri emigrati nella grande città.
“La vita agra” è un romanzo indispensabile anche per un altro motivo: rifugge dai canoni della narrazione classica. Qui non c’è l’arco drammaturgico, il “viaggio dell’eroe”, non c’è una storia scandita dai passaggi che sappiamo: incipit, innesco/sfida, conflitti, evoluzione del personaggio, scontro finale, esito (positivo o negativo). La vita agra è la vita vera, fatta di affitti precari e amori sudati, banchi dei pegni e soldi sempre pochi, di un sistema culturale che coopta anche gli anarchici più sinceri, lusingandoli e spremendoli in pari misura. È lo sgobbo, la precarietà, le menzogne, il sogno che le cose domani cambino. “Poi il sonno è già arrivato e io per sei ore non ci sono più”.
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