“Big Sur”, l’ultimo approdo di Kerouac
Big Sur, pubblicato nel 1962 (1966 in Italia, Mondadori, trad. Bruno Oddera) è l’ultimo capitolo della lunga autobiografia in forma letteraria di Jack Kerouac che merita di essere letto. Dopo questo titolo, ci sarà un altro romanzo, “Vanità di Duluoz”, in cui l’autore ripercorre alcune vicende della sua tarda giovinezza, compreso il servizio prestato nella marina militare durante la Seconda guerra mondiale, prima di essere riformato e di iniziare il percorso che porterà alla nascita della Beat generation, la nuova generazione di scrittori americani che ha avuto lui, Allen Ginsberg e William Burroughs come capostipiti e principali esponenti.
Un altro pilastro della Beat generation è stato il poeta ed editore Lawrence Ferlinghetti, di origini in parte italiane (venne anche a Trento, l’amico Carlo Martinelli mi ha raccontato la sua comparsata al teatro Sociale e l’accoglienza spumeggiante che gli venne riservata dai poeti trentini). È Ferlinghetti il Monsanto con cui Kerouac si è accordato per trascorrere un periodo di riposo, solitudine e, tra le righe, disintossicazione, nella sua casetta/capanna a Big Sur, località sulla costa californiana affacciata sull’Oceano Pacifico.
Kerouac, all’epoca dei fatti, è uno scrittore famoso. È l’autore di “Sulla strada”, il libro che ha stregato generazioni di ragazzi, con il racconto in prosa poetica, “libera” e jazzata dei suoi viaggi in autostop su e giù per le strade dell’America dei primi anni 50, alla ricerca di qualcosa di nuovo, ineffabile, grandioso e a suo modo, forse, sacro.
Ma la fama non ha giovato al buon Jack (o Duluoz o Ti Jean, o Sal Paradiso; nei suoi libri l’autore utilizzata molti pseudonimi, per sé e per gli altri protagonisti). All’inizio del romanzo Monsanto lo trova addormentato, e completamente ubriaco, in un alberghetto da quattro soldi di San Francisco, il giorno in cui avrebbe dovuto accompagnarlo a Big Sur. Così, si risolve a lasciarlo dormire. Quando Kerouac si sveglia, decide infine di tenere fede al suo proposito, e si avvia, malconcio, verso la meta, la cui destinazione conosce approssimativamente.
Arriva a Big Sur in piena notte. Scende dal ponte autostradale giù per il bosco e la scarpata rocciosa, attraversa un torrente e infine arriva alla capanna di Ferlinghetti (che ha ospitato anche Henry Miller). È l’inizio di un idillio nella natura, che dura 3 settimane, nel corso delle quali lo scrittore si dedica alle normali attività di una vita nei boschi, anche questa un topos letterario ed esistenziale americano, che ci riconduce a Thoreau e London, e cerca di trascrivere in forma poetica la voce dell’oceano che si infrange sulle scogliere.
Ma l’idillio dura poco. Presto la città richiama Kerouac alle sue vecchie abitudini, specchio delle sue angosce. Ai suoi amici, compreso Neal Cassady, l’eroe de “Sulla strada”, ai suoi amori irrisolti e distruttivi, ma soprattutto all’alcol. L’ultima parte del romanzo è una descrizione lacerante degli effetti del delirium trements. Anche in questo, bisogna dirlo, Kerouac è stato grande.
La fine del romanzo lascia aperto un flebile spiraglio di speranza. Kerouac decide di lasciare Big Sur e la California e tornare a casa, sulla costa Est, anzi, all’unica casa che alla fine ha mai conosciuto, quella della madre. Ma per poco. Morirà nel 1969, a 47 anni, per gli effetti della cirrosi epatica.
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