La storia

Bolzano, la strage del 3 maggio 1945. «Ho rischiato di morire fucilato ancora prima di nascere»

Marco Ribetto è un sopravvissuto. Il 3 maggio ’45 sua madre, al quarto mese di gravidanza, è stata sfiorata alla testa da una pallottola  e subito dopo tutta la sua famiglia è stata messa al muro dai tedeschi durante i rastrellamenti nelle fabbriche della Zona industriale


Luca Fregona


BOLZANO. La pallottola è lunga 7 millimetri. Una pallottola tedesca sparata da una mitragliatrice tedesca. La punta assassina, il “nucleo”, di un proiettile perforante. Marco Ribetto la conserva in una piccola teca di plexiglas. La tira fuori con cura. Sua madre Adalgisa l’ha staccata dalla parete in masonite della loro baracca al Villaggio Lancia il 3 maggio 1945, dopo che il proiettile l’aveva sfiorata alla testa, lasciandole una striscia viola sulla tempia. Anni dopo, quando lui è diventato un uomo, gliel’ha messa sul palmo della mano e gli ha chiuso il pugno. «Ora tocca a te, tienila tu». Non servivano altre parole perché la storia lui la sapeva già. Il senso è tutto lì: sul filo affilato di quei 7 millimetri passa il confine tra la vita e la morte. Marco Ribetto è un sopravvissuto. Gira e rigira la pallottola tra le dita. Punge ancora, la bastarda.

Il 3 maggio 1945, per due volte, Marco Ribetto ha rischiato di morire ancora prima di nascere. Sua madre Adalgisa lo aveva in pancia, quarto mese di gravidanza. Lei e suo marito Paolo lo avevano concepito in Germania, tra le bombe degli americani e i profughi in fuga dalle città distrutte. «Dopo l’8 settembre 1943 - racconta - mio padre, che era tornitore all’Arsenale Militare di La Spezia, era rimasto senza lavoro. I tedeschi reclutavano manodopera nell’Italia occupata per l’industria bellica, e lui, per non morire di fame, accettò di partire».

Novembre 1943: Paolo Ribetto ha 40 anni. È un reduce della guerra d’Etiopia. Prima ancora era contadino in Piemonte, ma non riusciva a mantenere la famiglia. Nel 1935 si era arreso: aveva preso la tessera del fascio e la “Patria” lo aveva spedito per un anno a dare la caccia ai partigiani del Negus sulla Amba Aradam. Quando torna, suo fratello che è in Marina gli trova il posto all’Arsenale. E lui, da contadino, diventa operaio. Operaio tornitore, un bravissimo tornitore. Quando le cose sembrano girare bene, scoppia la guerra. Il porto e la città vengono rasi al suolo, il cantiere chiude. Loro sfollano a Framura, dove Paolo, pur di lavorare, si adatta a fare saponette con ossa di animali per andarle poi a venderle di cascina in cascina. Dopo l’8 settembre, i nuovi padroni, i tedeschi, affiggono manifesti. Cercano lavoratori per le fabbriche in Germania. A Paolo non piacciano i nazisti, ma la fame è peggio. Parte per Kirchheim vicino a Stoccarda dove si fabbricano componenti per i micidiali missili V2. Adalgisa, che Paolo chiama dolcemente “Cisa”. resta a La Spezia con il primo figlio, Walter, che ha solo 13 anni. È inquieta “Cisa”. La separazione è dolorosa. La suocera la scongiura, ma lei ha già deciso: nei primi mesi del 1944 parte per la Germania. Con Walter.

Il viaggio di “Cisa”

Un’impresa pazzesca nell’Europa in guerra. Adalgisa è una donna di 33 anni, di una bellezza moderna, con un carattere indomito e una forza di volontà che le fa scalare le montagne. Il viaggio dura un mese. Un mese per coprire 730 chilometri. Prima in un’Italia martoriata guerra e miseria, tra soldati sbandati, vagoni piombati e le incursioni degli aerei americani. Poi in Germania, dove la situazione, se possibile, è peggio: un paese devastato, tenuto in ostaggio da Hitler. Adalgisa parte con un baule, sette valige e un piccolo dizionario italiano-tedesco. Prende i pochi treni affollatati all’inverosimile, dove è già un’impresa riuscire a salire tra gente che sgomita con l’ansia di restare a terra. Col figlio, il baule e le sette valige, si arrampica con le unghie sui vagoni. Si muovono al ritmo della guerra. Il viaggio è continuamente interrotto dalle bombe che piovono sui binari. Dormono dove capita. Se va bene, in qualche pensione rimasta in piedi. Se va male, si accampano tra le rovine, in una scuola, in un campo profughi. Una sera si riparano sotto il palco di un teatro. Quando Adalgisa si sveglia nel cuore della notte, Walter è sparito. Lo trova in trance mentre cammina incosciente sull’orlo del palco. Una conseguenza dello stress per i bombardamenti. Da quel momento, lei non si addormenterà più senza averlo prima legato con una stringa che poi si avvolge al polso come un cordone ombelicale.

È sfinita, crede anche di non farcela, ma cerca di tranquillizzare Walter: «Non ti spaventare se mi vedi piangere, lo faccio apposta così forse ci faranno arrivare prima da papà». Arrivano a Kirchheim con tutte sette le valige e il baule. Adalgisa viene assunta come donna delle pulizie nella stessa fabbrica del suo uomo. Walter viene messo al tornio accanto a papà per imparare il mestiere, in piedi su uno sgabello. La macchina è il doppio di lui. La guerra corre veloce. Nel marzo 1945, con gli americani ormai alle porte, decidono di tornare in Italia. Un altro viaggio impossibile nel crepuscolo senza pietà del Terzo Reich. Arrivano al Brennero l’11 aprile 1945 e lì, qualcuno, gli frega sotto il naso il baule e ... le sette valige.

Sfollati alla Fiat

Il giorno dopo sono a Bolzano. Con altre decine di sfollati, si rifugiano nel palazzo della filiale Fiat di viale Druso. Vorrebbero tornare a La Spezia, ma i cantieri sono distrutti, e loro devono campare. E “Pippo” scorrazza ancora nei cieli sganciando gli ultimi “confetti” sulla città. «Devo trovare un lavoro», ripete Paolo. In quel dormitorio improvvisato circola una voce: alla Lancia cercano operai. Chi meglio di lui? Paolo si presenta con la “Cisa”. Viene assunto il 25 aprile 1945. Prendono anche Walter, che ormai ha 15 anni e in Germania ha imparato l’arte del tornio. Viene assunta pure lei come donna delle pulizie, anche se ormai la pancia si vede e sa che quel lavoro durerà poco.

Lo stesso giorno ricevono la “casa”: la baracca numero 16 al Villaggio Lancia. Una lunga fila di 34 stamberghe-dormitorio di fronte alle Acciaierie, a ridosso della linea ferrovia e del sottopasso di via Volta (all’epoca via Luigi Rezza). «La nostra - spiega Marco Ribetto - è stata la prima famiglia ad essere stata sistemata lì. Fino a quel momento c’erano solo camerate separate per donne e uomini arrivati da tutta Italia per lavorare in fabbrica». I Ribetto ottengono una casetta che guarda verso lo stabilimento Viberti, l’unica con un ingresso proprio e i bagni non in comune. Un alloggio modesto, in legno e masonite, gelido d’invero e rovente d’estate, ma per loro è il paradiso. I conti con la guerra però non sono chiusi in Alto Adige. Gli americani non sono ancora arrivati e migliaia di soldati tedeschi in rotta stanno attraversando la città per raggiungere il confine. A piedi seguono i binari. Su auto, camion e moto, la statale. Al sottopasso di via Volta, alcuni proseguono dritto verso il Brennero; altri girano verso la Zona industriale in direzione Venosta e Svizzera. Le incursioni nei capannoni sono frequenti, per arraffare tutto quello che capita: cibo, benzina, una bicicletta, un camion. Il Comitato di liberazione nazionale organizza delle ronde per proteggere gli stabilimenti. Alcuni soldati della Wehrmacht vengono arrestati e richiusi nei depositi.

 

Il terrore

La mattina del 3 maggio tutto accade molto velocemente. Verso le 7 e mezza dalla Lancia sparano contro i tedeschi, uccidendone alcuni. Paolo e Adalgisa si sono rinchiusi nella baracca alle prime raffiche di mitragliatrice. Paolo ha messo un materasso alle finestre, e uno sulla porta. I tedeschi in transito sulla linea ferrata iniziano a sparare verso la Zona. I colpi piovano sul Villaggio. Un crepitio che sembra non finire mai. PUM PUM. PUM. I proiettili si schiantano sulle casette, fanno saltare i vetri, le porte. Bucano come burro le pareti di legno. Adalgisa stringe Walter al petto e si accuccia, poi mette la mano sulla pancia, per controllare che là sotto sia tutto a posto. PAM. PAM. PAM. Sente un fischio nelle orecchie, un sibilo sulla destra. Si tocca la tempia sotto i capelli, scende sangue, ma sta bene. Non capisce. Si gira. Una pallottola si è conficcata nella parete in masonite. È viva per miracolo. Fuori è un casino, ancora colpi, grida, pianti, suppliche. Là fuori si muore. Parte immediata la rappresaglia. I tedeschi rastrellano gli operai nelle fabbriche. Esecuzioni sommarie nel cortile della Lancia, davanti alla Ceda, sull’argine dell’Isarco dove oggi c’è il Twenty. Diciotto operai vengono allineati al muro della Lancia, un autoblindo li falcia a colpi di mitraglia: dieci muoiono, altri rimangono feriti, altri si salvano protetti dai corpi dei compagni.

Parte un altro rastrellamento. Questa volta al Villaggio Lancia. I tedeschi entrano come furie, abbattono le porte, cacciano fuori tutti in punta di mitra. Cercano partigiani, soldati italiani e prigionieri liberati dal lager di via Resia. Una ventina di persone impaurite alzano le mani. Ci sono anche Adalgisa, Paolo e Walter, che ha solo 15 anni. I tedeschi li scortano fino al sottopasso di via Volta con le mani incrociate dietro la nuca. Li fanno schierare allineati faccia al muro. «Cisa - dice Paolo - siamo sopravvissuti a tutta la guerra, ne abbiamo passate di cotte e di crude, e ci tocca morire qui a Bolzano...». Walter è in mezzo. Paolo lo abbraccia. «La mia vita finisce qui, mamma?». Non piange perché è già un uomo. Lei si tocca la fronte, gratta il sangue ormai rappreso che le ha impasticciato i capelli. Non risponde. Il suo viso bello e fiero è immobile. Porta le mani sul grembo. I tedeschi sono in attesa. Da Oltrisarco, qualcuno vede le donne, gli uomini e il ragazzino messi al muro. Sa cosa fare. Urla, chiama un nome. E continua farlo anche quando i tedeschi tirano una raffica alle finestre. Arriva un uomo in moto. È uno della Sod, la polizia ausiliaria sudtirolese. «Stanno massacrando dei poveri operai che non c’entrano niente - gli grida - . Ci sono anche delle donne. C’è un bambino. Fa qualcosa!». Al sottopasso è arrivato un autoblindo con la mitragliatrice sulla torretta. Come al muro della Lancia, verranno giustiziati con due raffiche. L’autoblindo si mette in posizione. L’ufficiale a terra è pronto a dare l’ordine. Gli operai pregano, raccomandano l’anima a Dio. L’uomo con la fascia della Sod inforca la moto e raggiunge l’ufficiale. Urla in tedesco. «Fermi, fermi non sono partigiani. Sono semplici operai. Non uccideteli, non erano armati». L’ufficiale forse stanco di ammazzare, forse per uno scrupolo di coscienza, forse nauseato dalle stragi inutili, decide di credergli. Così come sono arrivati, i tedeschi svaniscono nelle strade della Zona e di Bolzano, dove la mattanza continua. Adalgisa, Paolo, Walter, e gli altri sopravvissuti rientrano nelle baracche. Adalgisa si tocca ancora la ferita. Punta la parete. Con una lama tira via la pallottola come un cancro da estirpare dalla carne sana. Eccola qui, la bastarda: 7 millimetri. Le avrebbe spaccato la testa come una noce. Sarà passata mezzora. «Oggi ho rischiato di morire due volte; e con me la creatura che porto in grembo», dice. Paolo le tocca la pancia: «Gioia, dolore e paura durano tre giorni. Non ci pensare più. Dobbiamo guardare avanti, anche per lui». E così faranno.

Marco Ribetto nasce il 10 ottobre 1945 all’ospedale di Bolzano, la sua prima casa è la baracca numero 16. Adalgisa è morta nel 2010, a 100 anni e 8 mesi. Paolo è morto nel 1987 a 85 anni. Walter a soli 58 anni nel 1989 dopo una vita passata in fabbrica. Marco oggi è in pensione, si è spostato nel 1971 con Carla. Hanno avuto un figlio, Massimo. Il 3 maggio 1945, a Bolzano sono state uccise dai tedeschi 36 persone.













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