Ciao Ferro, indimenticabile capo della nostra tipografia



Per noi era Ferro. Un po’ per il cognome (Ferretti), ma soprattutto per il pugno di ferro nel guanto di velluto. Una certezza. Un punto fermo. Una colonna. Un riferimento. Sempre tranquillo. Sempre sicuro. Sempre gentile. Anche nei tanti momenti complicati che in un giornale non mancano mai.

Franco Ferretti era «Il» proto: il capo della tipografia. Ma era - ed è, perché lo ricorderemo sempre al presente - un pezzo del cuore del nostro giornale, un porto sicuro, un amico, un fratello maggiore, un prezioso compagno di viaggio.

Da ieri mattina, quando la notizia della sua morte ha travolto i nostri pensieri e i nostri ricordi, ci siamo sentiti tutti più soli, qui al giornale. 

Perché Ferro, anche se era andato in pensione da un po’ - giovanissimo, perché aveva iniziato a lavorare da ragazzino - , non era mai andato via davvero. Il suo garbo, il suo stile, le sue intuizioni, la sua capacità di risolvere problemi all’apparenza insormontabili facevano e fanno parte della storia di questo nostro giornale e delle diverse stagioni di ognuno di noi. Ogni collega ha infatti avuto a che fare con lui: uomo invisibile all’esterno e fondamentale all’interno, nella fabbrica delle notizie.

Vorrei descrivervi i volti attoniti dei colleghi, il loro dolore, il loro stupore. Nessuno sapeva del suo brutto male. Del resto, lui aveva avuto la notizia da pochi giorni, per via di quella fastidiosa febbricola che spuntava ogni pomeriggio. Si preparava a combattere. Come ha fatto sempre. Senza perdersi d’animo. Col sorriso sulle labbra. E anche con quella dolce fermezza che ne ha caratterizzato l’esistenza. Ma il tempo - sì, quel tempo che ogni notte riusciva a “domare” per consentirci di chiudere l’ultima pagina con l’ultima notizia - non gli è stato concesso. Il male se l’è portato via proprio con la velocità con cui Franco cambiava le pagine e sistemava un pezzo troppo lungo o troppo corto nel cuore della notte, quando l’arrivo in edicola si fa quotidiano miracolo.

I ricordi sono tantissimi. A me piace rivelarvi che un direttore, quando arriva in un giornale, non ha bisogno solo del consenso, dell’entusiasmo e della professionalità della redazione. Ha bisogno della collaborazione di ogni reparto del giornale, a cominciare proprio dalla tipografia, il polmone che ogni notte dà forma e respiro alle nostre parole. Ebbene, a tutte le idee che volevo introdurre, a tutte le forzature grafiche (noi le chiamiamo così, a dimostrazione delle difficoltà che si legano ad ogni piccola rivoluzione) che fin dall’inizio ho voluto lanciare, lui ha dato un volto, un senso. Non mi ha mai detto «impossibile» o «non l’abbiamo mai fatto». Ha sempre cercato, non di assecondarmi, ma di seguirmi, di camminare con me, con i tanti colleghi che chiamavano sempre lui, soprattutto nelle serate e delle nottate di quelle che noi chiamiamo le edizioni impossibili. Penso ai numeri elettorali o ai giornali che escono dopo le grandi tragedie: pagine e pagine fatte, cambiate e rifatte più volte.

Non l’ho mai visto preoccupato. Sapeva che una soluzione si sarebbe sempre trovata. E la trovava. Solo l’altra notte non ha trovato una soluzione, in una battaglia nella quale non bastano coraggio, caparbietà e carattere. Vania e Alex - che tutto l’Alto Adige abbraccia con grande tenerezza e con riconoscenza, per tutti i momenti che Ferro ha tolto a loro per donarli a noi, che siamo stati a lungo la sua seconda famiglia - perdono un marito, un padre, un uomo davvero prezioso (che ora era anche molto impegnato nel volontariato), un porto sicuro, una roccia. Noi perdiamo un pezzo della nostra storia, un pezzo di arguta aristocrazia operaia, come la chiama con una grande intuizione Umberto Gandini, e in fondo un pezzo di noi, dei nostri giorni, delle nostre notti.

Caro Ferro, ci mancherai. E sappiamo bene che certe ferite non si rimargineranno. Si possono solo curare: con la bellezza, la simpatia, la serietà professionale, l’impegno e la meravigliosa normalità dei ricordi che ci lasci.

 













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