STORIE

Dal Vajont a Cima Vallona, al volante c'era sempre il carabiniere Panfili 

Raffaele Panfili era l’autista dell’Autodrappello dell’Arma della Legione di Bolzano. Portava i carabinieri in condizioni estreme nelle operazioni di soccorso. L’incontro in redazione tra i figli e Benito Torricelli, che era con lui, nel 1956, nel recupero delle salme della sciagura aerea sul Monte Giner. La scorta a Gino Bartali


Luca Fregona


Bolzano. «Ma... Ma sta parlando di mio padre!». Moreno Panfili fa un salto sulla sedia, l’Alto Adige spalancato sul tavolo, il cuore che batte. Riparte daccapo, rilegge l’articolo parola per parola, l’indice corre riga per riga. «Sì, parla di mio padre». A volte il passato torna di colpo. Bussa alla porta quando meno te lo aspetti. Qualche settimana fa abbiamo pubblicato la storia di Benito Torricelli, il carabiniere bolzanino che la Vigilia di Natale del 1956 salì a tremila metri di quota sul Monte Giner in Trentino per recuperare le salme di uno dei più gravi incidenti dell’aviazione civile italiana. Un Dc9 di linea in volo da Roma a Milano si era schiantato sulla montagna: 21 morti, nessun superstite. I soccorsi furono difficilissimi a 30 gradi sottozero. Da Bolzano partì una squadra di carabinieri dalla Stazione dell’Arma che all’epoca era in via Fago. «Ci caricarono su un camion col telone e via - racconta Torricelli al giornale -, a tutta velocità in una corsa contro il tempo. Al volante c’era Raffaele Panfili, un autista bravissimo. Quel giorno ha guidato su ghiaccio e neve, col freddo che ci mangiava lo stomaco e i gas di scarico che ammorbavano il cassone. Dovevamo fare in fretta per salvare eventuali sopravvissuti».

Moreno Panfili chiude l’Alto Adige, chiama le sorelle Lorella e Patrizia. E poi la redazione: «Nostro padre - spiega - ci diceva poco o niente delle missioni a cui partecipava. Era una persona molto riservata. Ci piacerebbe incontrare il signor Torricelli, per sentire papà ancora vicino per un attimo». Detto fatto. Nostri ospiti al giornale insieme a Benito. Quando un papà molto amato muore troppo presto, resta il rimpianto di non avergli parlato di più, di non averlo conosciuto di più, del tempo non trascorso insieme, delle cose non dette e non raccontate.

«È morto a soli 62 anni nel 1986, pochi anni dopo il congedo, e noi eravamo ancora troppo giovani, avevamo ancora bisogno di lui».

E allora, quando trovi un appiglio ti aggrappi con tutte le tue forze. E oggi, Benito è questo per Moreno, Lorella e Patrizia: un appiglio. «Questo incontro - dice Patrizia - è un bellissimo regalo -: una persona rimane ancora un po’ viva finché viene ricordata...». L’emozione è forte. Vorrebbero abbracciare Benito ma non si può per il dannato virus. «Vostro padre - dice con dolcezza Torricelli - l’ho conosciuto quel giorno lì, la vigilia di Natale del ’56. Ero arrivato da poco a Bolzano dal mio paese sull'Appennino Emiliano, dovevo ancora ambientarmi. Lui era di stanza alla Legione in viale Druso, all’Autodrappello. Ci hanno dato degli scarponi, una specie di tuta per proteggerci dal freddo, e il grasso di foca. Raffaele aveva preparato il camion, sistemato il telone, fissato le paratie, e messo delle coperte. Noi eravamo tutti sui vent’anni e di primo pelo. Lui era già sui trenta. Aveva fatto la guerra. Ci ha detto di stare tranquilli e che ci avrebbe riportati indietro sani e salvi. E così siamo partiti per Madonna di Campiglio. È stato un viaggio durissimo, in condizioni meteo estreme su strade ancora dissestate. Ci voleva grande esperienza per evitare incidenti e tragedie».

Raffaele Panfili di esperienza ne aveva già tanta. Era nato nel 1923 in un paesino vicino a Udine. Un friulano duro e generoso, abituato a lavorare sodo sin da bambino. Entra nei Carabinieri Reali a 19 anni. Nel 1942, è di stanza a Trento. Si salva dai bombardamenti e dalla rappresaglia dei tedeschi dopo l’8 settembre 1943 nascondendo gli ordini cuciti nel risvolto del cappotto. Finita la guerra, viene assegnato alla Legione di Bolzano all’Autodrappello. Che significa: autista h 24, sempre pronto a partire. Scorte, pattugliamenti, trasporto uomini. In tutti gli eventi più gravi di quegli anni Panfili c’è: alla guida dei camion “Lancia Esatau” che portano i carabinieri là dove c’è bisogno di loro. Un autocarro soprannominato “musone”, l’Esatau, perché ha la cabina arretrata rispetto al motore. Una bestia che va dappertutto ma difficile da guidare. Veniva prodotta da “Lancia Bolzano” nella fabbrica di via Volta dove oggi c’è l’Iveco.

Panfili ha la responsabilità delle vite degli uomini che viaggiano nel cassone, con l’ansia di fare in fretta, perché nell’Italia del dopoguerra le strade sono quelle che sono e la macchina dei soccorsi deve fare i conti con innumerevoli difficoltà nelle comunicazioni e nella logistica. Panfili è sempre pronto. Sciagura aerea del Monte Giner nel ’56. Poi, il 9 ottobre del 1963, il Vajont, un’esperienza che lo segna profondamente. «Ogni tanto ne parlava - raccontano i figli -: ha visto cose orribili che lo hanno accompagnato per tutta la vita». E ancora: i soccorsi nella vallate flagellate da slavine e frane. Nel novembre 1966, l’alluvione di Firenze. «L’autista di un mezzo militare - spiega Torricelli - è tutt’uno con il camion, la campagnola, l’auto di servizio... Non deve mai abbandonarli: deve essere pronto a partire in ogni momento, e nelle migliori condizioni di sicurezza possibili». Panfili riceve diversi encomi dal Ministero della Difesa. Quello sul Vajont è da brividi: «Quando una immane sciagura si era abbattuta sulle popolazioni del Cadore, i militari accorsero a portare l’aiuto che - essi soli - potevano dare. Prodigandosi in comunione di dolore oltre i limiti del dovere, rintracciarono e composero i morti, riaprirono le strade, gettarono i ponti, donarono ai superstiti il conforto di un'assistenza fraterna, fiorita d’amore». Soccorso alle persone e ordine pubblico. C’è anche la pagina nera e difficile del terrorismo in Alto Adige. «Siamo saliti a Cima Vallona dopo la strage (il 25 giugno 1967 quattro militari vengono uccisi in un attentato, ndr) - racconta Torricelli -. Facevamo pattugliamenti a largo raggio. Ricordo il dolore di Panfili: aveva accompagnato moltissime volte il comandante della Compagnia speciale antiterrorismo Francesco Gentile, morto nella strage. In quell’occasione Gentile aveva utilizzato l’elicottero. Eravamo sconvolti».

Moreno, Lorella e Patrizia erano dei bambini ma ricordano quando nel cuore della notte bussavano alla porta per richiamare urgentemente il padre in servizio. «Spariva anche per giorni. Al ritorno, era tutto per noi e mamma Wilma. Sapevamo che rischiava la vita. Ma non raccontava niente. Era il suo modo di proteggerci».

Tanto riservato quanto accogliente. «La nostra casa - racconta Patrizia - era aperta. Portava sempre a pranzo qualche ragazzo appena arruolato, catapultato qui da chissà quale parte d’Italia. Lui sapeva cosa significa lasciare tutto per sopravvivere. Diceva che si deve lo stesso rispetto a tutti, anche per l’ultimo anello della catena». In quegli anni bui, l’Arma aveva un rapporto profondo con la comunità italiana di Bolzano. Moreno tira fuori decine di foto in bianco e nero straordinarie (un patrimonio di memoria cittadina che andrebbe valorizzato). La vita dei militari. I caroselli motociclistici dei carabinieri in occasione della Festa dell’Arma del 5 giugno allo Stadio Druso, alla Legione, alla Caserma Guella. Raffaele sorridente a cavallo di una Guzzi Falcone prima di un’esibizione acrobatica. «Era una grandissima festa per tutta la città, e noi eravamo orgogliosissimi del nostro papà che con la moto attraversava il cerchio di fuoco». E, per chiudere, forse la più bella. L’istantanea di un’Italia che non esiste più.

Primi anni Cinquanta: Raffaele fa la scorta a Gino Bartali.

Una tappa del Giro.

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