La storia

Dopo 76 anni la medaglia sulla tomba del padre sopravvissuto al lager 

Consegnata dal prefetto alla figlia di Guido Lodola per la Giornata della Memoria


Luca Fregona


BOLZANO. Valeria Lodola apre il cofanetto blu con cura. Avvicina la medaglia di bronzo alla foto sulla lapide. Un uomo ormai anziano con gli occhiali tartarugati e il sorriso largo. «Eccola papà, so che ci tenevi tanto». Il nastrino con i bordi tricolori balla al vento. 27 gennaio, Giorno della Memoria, l’aria è gelida al cimitero di Bolzano. Il sole debole e fiacco. Quel colore malato che fa il freddo ancora più freddo, e l’assenza ancor più insopportabile. «Mi manchi tanto papà...». Lui la guarda dall’ovale incassato nel marmo.

Guido Angelo Lodola: il nome sulla medaglia è circondato da una corona di filo spinato spezzato. Reciso da chi si è battuto per la libertà. Omaggio a chi si è opposto al nazifascismo marcendo per venti mesi in un campo di concentramento. Valeria l’ha ricevuta due giorni prima dalle mani del prefetto Vito Cusumano alla cerimonia per “Bolzano Città della Memoria 2022”. È la Medaglia d’onore della Repubblica per i militari italiani deportati e internati nei lager nazisti dopo l’8 settembre 1943, gli Imi. La prima forma di Resistenza. I 600 mila che si rifiutarono di chinare il capo e aderire alla Repubblica sociale di Mussolini. Guido Lodola è morto a 81 anni il 22 dicembre del 2011. «Fino alla fine - racconta la figlia - ha provato a ottenere il risarcimento dalla Germania per quei due anni di lavori forzati da schiavo di Hitler. Era una questione di principio. I soldi erano una miseria, ma lo vedeva come un atto simbolico. Il riconoscimento del loro sacrificio. Una questione di principio». E invece: zero virgola zero.

Ora, finalmente, questa medaglia. Anche se fuori tempo massimo. «Fa niente - dice Valeria -. Per noi familiari, è comunque molto importante».

Mostra le foto, la figlia. Scatti in bianco e nero: 1941, Guido in divisa da aviere e il viso ancora da adolescente. Aveva solo 21 anni. Era nato a Monticelli d’Ongina, un paese di 5 mila anime in provincia in Piacenza. Era arrivato a Bolzano alla fine degli anni Trenta insieme al fratello Giuseppe. Giù non c’era lavoro mentre qui la città si allargava, servivano braccia per le fabbriche, le centrali elettriche, le botteghe. Scoppia la guerra, la chiamata alle armi. Il corso avieri. Poi la Grecia nel ’43. Altra foto: Guido in posa ad Atene sotto il Partenone. “Per essere maggiormente ricordato”, si legge sul dorso.

L’emozionante ricordo di Guido Lodola, internato militare e Medaglia d’oro, da parte della figlia Valeria

Valeria Lodola ricorda il padre, Guido, internato militare in un lager in Germania dal 1943 al1945, Medaglia d’onore della Repubblica.

La cattura. L’8 settembre lo prende in contropiede all’aeroporto di Patrasso. Circondati dai tedeschi che schiumano rabbia, vendetta e tradimento. Li radunano sulla pista d’atterraggio. Inquadrati a file. Insulti. Botte. «Vi ammazziamo tutti, maledetti Badoglio». La canna del fucile nella pancia. Fatti salire a calci sui carri bestiame. «Mi ha raccontato molte volte quelle giornate - continua Valeria -. Le ho scolpite bene nella memoria. E adesso tocca a me ricordare: la precarietà, lo smarrimento, la solitudine...». La sentinella col mitra sul tetto del vagone piombato. Gli ordini latrati. La tradotta che si muove verso il nulla. Il convoglio viene preso di mira dai caccia inglesi. I soldati tedeschi scappano ma lasciano i prigionieri chiusi dentro i carri merci mentre intorno piovono bombe dappertutto. L’onda d’urto fa oscillare il vagone di Guido. Una, due, tre volte... E ancora e ancora e ancora. Pregano quei ragazzi. Si stringono. Battono contro il portellone ma è bloccato dall’esterno. Cercano un riparo che non c’è, accucciandosi negli angoli, appiattendosi sul fondo. Le bombe smettono, il treno riparte. Pochissima acqua, niente cibo. Migliaia di chilometri prima a ovest poi a nord. «Non smetteva di ringraziare alcune donne che durante una sosta in Austria o in Germania, si sono avvicinate ai carri per lanciare filoni di pane nero. Non mangiavano da giorni. Un gesto di pietà che non ha mai dimenticato. Lo confortava». La destinazione finale è il lager di Meppen, in Germania, Bassa Sassonia. «Sono partiti in calzoncini corti e maniche di camicia, si sono ritrovati lassù che era autunno. Grandine e nevischio dal mare del nord. Divideva con un compagno un pezzo di tela per non morire di freddo».

Matricola 104055. Stalag VI C, un campo in mezzo alle paludi. I prigionieri italiani muoiono come mosche di malattia e fame. Il rancio è una gamella d’orzo bollito, qualche patata, una razione minima di pane. Dormono nelle baracche sulla terra battuta. Le guardie sono durissime. Ogni occasione è buona per picchiare. Usano il calcio del fucile e la frusta. I prigionieri cercano di sopravvivere. Rubano le bucce delle patate. Rovistano tra le immondezze delle cucine. Se li prendono, è finita. Un carabiniere viene trovato tra i bidoni mentre cerca qualcosa da mettere sotto i denti. È una maschera debole di 40 chili. Le Ss lo scaraventano a terra. Calci nel ventre, nelle gambe, sulla testa. Lo massacrano. Guido impara al volo il lessico brutale del lager. «Si è dovuto nascondere. Temeva che se lo avessero visto, avrebbero ucciso anche lui». Un giorno, i prigionieri notano un carico di patate incustodito, fermo sui binari, il portellone aperto. Guido striscia fino al vagone. Arriva al portellone, si alza sulle ginocchia, da un’occhiata dentro e una intorno. Non c’è nessuno. Afferra un sacco e lo trascina giù. Bam. Un colpo secco dietro la testa. Si volta d’istinto. La guardia imbraccia il fucile dalla canna. Bam. Altro colpo, questa volta in piena faccia. Gli rompe il setto nasale.Continua a picchiarlo con il calcio. Perde i sensi ma sopravvive. «Quei colpi se li è portati nella tomba - dice Valeria-. Il naso non è più tornato a posto». Assiste impotente al pestaggio sistematico delle prigioniere russe, soldatesse dell’Armata rossa, da parte delle kapò tedesche. «La loro vita non valeva nulla», ricordava.

Schiavi di Hitler. Nel campo ci sono prigionieri polacchi, russi, e francesi. Il Terzo Impero usa gli internati come manodopera schiava per l’industria bellica. Guido viene assegnato alla fonderia Bergisch-Märkisches di Velbert come “tecnico”. Lavora ai forni dove si forgiano cingoli per carro armati. Il capo officina lo tratta bene, lo protegge. I prigionieri mangiano al refettorio dello stabilimento. Patate e carote. Guido sta simpatico alla cuoca, una ragazza russa che gli allunga sempre qualcosa dalla mensa, più ricca, degli ufficiali e degli operai civili. Anche sigarette che sul mercato nero del campo valgono oro. Servono a comprare l’indifferenza delle SS e una fetta di pane. Nei primi mesi del 1945 quando per i tedeschi si mette male, vede colonne di prigionieri con la stella gialla. Sono le marce della morte, prima dell’arrivo degli alleati. In aprile i lager di Meppen e Velbert vengono liberati dagli americani.

Valeria mostra la cartolina con data 29 giugno spedita ai genitori: «Carissimi, sono sano e salvo. Scriverò appena possibile. Spero di tornare presto». Quando torna a Bolzano, l’aviere Guido Lodola ha 24 anni e pesa 40 chili. Riabbraccia il fratello Giuseppe, anche lui un sopravvissuto: Stalag 938, Pupping, Alta Austria.

Altri 40 mila giovani come loro non ce l’hanno fatta. Un peso difficile da portare.

Valeria richiude la medaglia d’onore nella custodia blu, la posa nella borsa accanto alle foto e al ricordo di un padre molto amato. Il sole ormai si è spento dietro la Mendola. È il momento di restare a parlare un po’ con lui. Da sola. Come si fa sulle tombe dei nostri cari, sicuri che ci stiano ascoltando da qualche parte. «Non ha mai dimenticato le botte e le umiliazioni - dice- , ma neanche chi lo ha aiutato. Quando gli chiedevo come avesse fatto a non cedere alla disperazione, rispondeva così: “Con la fede e il mio ottimismo. Ero sicuro che il nazifascismo fosse il Male, e che il Male, alla fine, non può mai vincere”».













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Valeria Frangipane

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