LIBRI

“I detective  selvaggi”  di Roberto Bolaño 



Ci sono volte in cui la lunghezza di un romanzo è giustificata. Non sempre. A volte si ha l’impressione che nello scrivere un libro molto lungo l’autore cerchi di trasmettere l’idea che il suo è un lavoro importante, in grado di rivaleggiare con i grandi classici. Magari per nasconderne le debolezze di fondo

Ne “I detective selvaggi” di Roberto Bolaño, pubblicato per la prima volta in Spagna nel 1996, pochi anni prima della scomparsa dello scrittore, e del suo grande successo postumo (in Italia da Adelphi, trad. Ilide Carmignani) la lunghezza (688 pp.) è parte integrante della poetica. Bisogna immergersi, in questa storia. Nuotarci dentro. Bisogna ascoltare le tante voci. Bisogna avere la capacità di leggere la prima parte, una sorta di romanzo di formazione in stile beat ma ambientato a Città del Messico, con al centro il giovane poeta Juan García Madero e la sua storia d’amore con la prostituta Lupe, che ha deciso di mollare il suo protettore, Alberto. Poi di attraversare l’oceano della parte centrale, in cui ben 54 voci diverse raccontano episodi della vita di Ulises Lima e Arturo Belano, i due poeti realvisceralisti che nel capitolo precedente hanno ammesso Madero alla loro piccola “corte”, e che sono scappati con lui e Lupe verso il nord del Messico per sfuggire alle ire di Alberto. E infine, nella terza parte, di ritornare alla storia iniziale, da dove si era interrotta, cioè al deserto vuoto e sterminato del Sonora, al confine fra Messico e USA, dove il quartetto Ulises, Belano, Madero e Lupe, nel mentre continuano a scappare dal protettore di Lupe, sono anche alla ricerca della misteriosa poetessa Cesárea Tinajero, che considerano la fondatrice del realvisceralismo, e di cui da decenni si sono perse le tracce.

Questo capolavoro di Bolaño (e della letteratura di fine XX secolo) è un romanzo che si può leggere a molti livelli. In superfice, è una storia picaresca, polifonica, spesso divertente, fatta di viaggi, sesso, amicizia, gangster e tanta, tanta letteratura. Ad un livello sottostante è il resoconto allucinato di una ricerca, quella che i lettori appassionati (e i poeti) conducono per raggiungere la fonte della loro ispirazione. E se si scava fino in fondo, emerge forse il sentimento definitivo che ha spinto l’autore a scrivere: l’idea che ogni uomo (ogni lettore) finisce con uccidere, per sbaglio o troppo amore, ciò che ama. Come scrisse Oscar Wilde. Come cantò Jeanne Moreau.

E la lunghezza? La lunghezza è il dipanarsi epico di esistenze irriducibili, mai dome, di poeti che lo sono nell’anima prima ancora che sulla carta. Ma la lunghezza avvolge anche il romanzo nelle spire di un’atmosfera allucinata, di un lungo miraggio opalescente.

Bolaño non è un seguace del realismo magico (come non lo è il senegalese Mohamed Mbougar Sarr, un suo…no, non epigono: prosecutore, forse). Tuttavia è un autore cileno, cioè sudamericano. E la letteratura di quel continente ha sempre un che di magico, di “incrinato”. Lascia passare qualche riflesso di ciò che c’è là fuori. Oltre la dura sfera del reale.

 













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