LIBRI

Il purgatorio dei fascisti 

Il volume. Lo storico Gianni Oliva racconta la storia poco nota del campo di Coltano dove alla fine della guerra vennero rinchiusi 32mila reduci della Repubblica Sociale. Tra loro nomi diventati poi famosi, come Raimondo Vianello e Walter Chiari 


Luca Fregona


Bolzano. «Non rinnego né Salò né Sanremo». La battuta è di Raimondo Vianello. Walter Chiari a teatro chiudeva gli spettacoli così: «Saluto voi della prima fila, e quelli della decima». Chiara allusione alla Decima Mas, in cui si era arruolato dopo l’8 settembre ’43. Chiari e Vianello avevano combattuto per la Repubblica sociale italiana. Erano cioè, da giovani se non giovanissimi, fascisti. Entrambi, alla fine della guerra, vennero rinchiusi nel campo d’internamento di Coltano, vicino a Pisa, insieme a circa 32mila reduci di Salò, dal maggio al settembre del 1945.

Chiari e Vianello furono tra i pochi di un lungo elenco di nomi diventati poi illustri (Dario Fo, Enrico Maria Salerno, Ugo Tognazzi, Giorgio Albertazzi, il giornalista Mauro De Mauro, il celebre telecronista Enrico Ameri...), che, pur prendendo nettamente le distanze dal fascismo, non nascosero mai l’adesione alla Rsi. Ormai inseriti nell’Italia democratica, la contestualizzavano nel quadro di una scelta maturata da una generazione imbevuta di fascismo, nata e cresciuta nel ventennio, che visse l’armistizio come un tradimento insopportabile da parte di chi aveva ottenuto tutto da Mussolini: soldi, onori e prestigio. Dei “ragazzi di Salò” si occupa ancora una volta lo storico torinese Gianni Oliva nel suo nuovo libro “Il purgatorio dei vinti. La storia dei prigionieri fascisti nel campo di Coltano” (Le Scie Mondadori, 21 euro), che inizia là dove finiva il precedente “La bella morte”, che raccontava, invece, quei giovani prima e durante l’esperienza della Rsi.

Professor Oliva, ora lei si concentra sul “dopo”, su quello che accadde a guerra finita con l'internamento nei campi di detenzione. Il purgatorio dei vinti, che non è il paradiso, ma neppure l’inferno...

Per loro si trattava di un tempo sospeso in attesa di capire che fine avrebbero fatto. I campi di internamento per i fascisti erano circa un centinaio in tutta Italia. Quello di Coltano era il più grande e venne aperto dagli americani nel maggio del ’45. Non si può dire che fosse l’inferno. L’inferno è altro. L’inferno è Auschwitz. Era un purgatorio certamente sofferto e punitivo, ma non tale da incidersi sulla pelle. Stavano lì tutti ammassati, l’alimentazione era scarsa, erano senza medicinali e cure mediche. La mortalità era di quattro, cinque casi al giorno, ma non erano condizioni paragonabili a quelle di un lager.

Coltano non fu scelta a caso...

Era un’area agricola piatta, facile da sorvegliare, vicina a un campo militare americano, e, soprattutto, lontana dalle grandi città industriali del nord, dove la resa dei conti aveva causato già migliaia di morti. Tutti quelli che sono finiti a Coltano in qualche modo si sono messi in salvo. Alcuni sono stati catturati, altri si sono consegnati agli americani di loro volontà: era una garanzia dal punto di vista della vita.

I kapò nelle baracche erano i prigionieri tedeschi...

Era una continuazione. I tedeschi comandavano durante Salò, logico fossero i kapò della prigionia degli uomini di Salò. E non erano teneri. Non stimavano gli italiani, anche se erano fascisti.

Coltano è una pagina dimenticata della nostra storia. Da cosa nasce la necessità di indagare?

Non certo per simpatia ideologica. Credo però che su quegli anni sia stata fatta una narrazione che oggi non ha più senso. La narrazione di un Paese che aveva perso la guerra dopo averla scatenata, ma che aveva sostanzialmente fatto finta di averla vinta. C’era stato un episodio, la Resistenza, che ci aveva messo dalla parte giusta. E l’avevamo usata come alibi per assolverci dal dovere di fare i conti con il nostro passato.

E cioè con il consenso che aveva il fascismo...

Già. Un Paese, il nostro, che ha inventato il prototipo del totalitarismo. Il fascismo è stato il primo esempio, poi esasperato nei modelli nazista e stalinista. Per vent’anni si è giovato della complicità di tutta la classe dirigente. A partire dagli intellettuali, dai giornalisti, dal mondo accademico. Un caso emblematico: tutti i libri di storia ancora oggi dicono che Mussolini nel 1931 ha obbligato i docenti universitari a giurare fedeltà al regime. E tutti i libri ricordano i tredici professori che hanno avuto il coraggio di dire di no. Benissimo, però in quell’anno i professori erano 1848. E allora, il dato statistico non sono i tredici che hanno detto di no, sono 1835 che hanno detto di sì. Parlare dei tredici serve per dimenticare i 1835.

Cosa c’entra coi giovani di Salò?

C’entra, perché nella vulgata dell’Italia repubblicana, i fascisti erano solo i giovani di Salò. Non lo erano tutti quelli che erano stati fascisti “prima”, quasi che la complicità con le leggi razziali fosse meno grave. O la complicità con i gas asfissianti in Etiopia, o col delitto Matteotti, o con la dichiarazione di guerra, l’alleanza con Hitler... Tutto quello che aveva fatto la generazione precedente, che dal fascismo aveva tratto profitti, costruito carriere e prestigio, è stato dimenticato. E i ragazzi di Salò sono diventati il male assoluto.

Il paracadute di tutte le colpe...

Sì, io credo invece che fossero innanzitutto dei... giovani. Se si va a vedere l’età, vanno dai 17 ai 18, 20 anni. Chi aveva vent’anni l’8 settembre del ’43, era probabile pensasse che il Re e Badoglio tradivano. Che dopo aver combattuto per tre anni, dicendo di tutto e di più contro inglesi e americani, si alleavano con gli alleati per puro opportunismo, perché stavano vincendo la guerra. Quel senso di tradimento ha coinvolto e contagiato una generazione cresciuta sotto le ali della Gioventù italiana del Littorio.

A Coltano c’erano persone che sono poi diventate famose nell’Italia del dopoguerra.

È stato difficile rintracciare i nomi negli archivi. Quando questi prigionieri venivano portati al campo, si formavano lunghe file: dovevano dichiarare le proprie generalità a un soldato americano, che faceva da segretario. Prendiamo uno che si chiamava Walter Michele Armando Annicchiarico, che era il nome vero di Walter Chiari: era già complicato scriverlo se sei italiano, figurarsi per un americano. Nei registri, i nomi erano tutti storpiati. Molti prigionieri, tra l’altro, davano generalità false nell’incertezza del loro destino.

Alcuni ragazzi di Salò hanno vissuto poi carriere e vite memorabili, gettandosi definitamente alle spalle il fascismo e la Rsi.

Certo, pensiamo a uomini di spettacolo come Raimondo Vianello o Enrico Maria Salerno, che è stato poi protagonista di un film come “La lunga notte del ’43”, scritto da Giorgio Bassani: un atto di denuncia di una rappresaglia delle Brigate nere. Rispetto al suo passato, Salerno non fece nessuna abiura e nessuna rivendicazione. Era consapevole che si trattava di una stagione difficile. L’unico che ha mantenuto un legame con quel periodo, è stato Walter Chiari. Era abituato in pubblico a dire: “Saluto voi della prima fila, e quelli della decima”. Perché lui era della Decima Mas.

Anche Vianello non l’ha mai nascosto. “Non rinnego né Salò né Sanremo” disse con una battuta a Marcello Veneziani in una celebre intervista del 1999.

E aveva ragione. Perché un conto è prendere le distanze da un percorso fatto da ragazzo. Un altro negarlo mentendo. Non erano andati a Salò per opportunismo. Vianello era figlio di un ammiraglio della Regia Marina. Veniva da una cultura familiare monarchica. Dopo l’8 settembre si era arruolato nei bersaglieri della Rsi. Roberto Vivarelli, professore emerito della Normale di Pisa, uno degli storici di più sicura ortodossia antifascista, era nato nel 1929. A 14 anni è andato volontario a Salò, perché suo padre, che era un fascista convinto, era morto in combattimento nei Balcani, ucciso dai titini. In seguito, ha spiegato che, come figlio, non poteva rinnegare suo padre. Stessa cosa suo fratello Piero, che di anni ne aveva 17, e poi divenne un dirigente del Pci. Tutti e due affrontavano l’argomento Rsi con grande onestà intellettuale.

Giovani che hanno scelto la parte sbagliata per un malinteso senso della patria e del dovere.

Italo Calvino lo ha detto subito nel suo libro “Il sentiero dei nidi di ragno”, pubblicato appena finita la guerra. Lui partigiano garibaldino scrive: “Quel furore antico che è in tutti noi, e che si sfoga in spari, in nemici uccisi, è lo stesso che fa sparare i fascisti, che li porta a uccidere con la stessa speranza di purificazione». E allora qual è la differenza? Calvino risponde: «C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra».

Dalla parte sbagliata. Non è un caso che Togliatti e la Dc mandano i militanti a fare proselitismo tra i prigionieri di Coltano...

Giorgio Benvenuto, che è stato segretario nazionale della Uil, mi ha raccontato di aver conosciuto diversi sindacalisti che a 17, 18 anni erano stati a Coltano. Molti di quei ragazzi avevano una spiccata sensibilità sociale e contestavano al fascismo del ventennio di aver perso le sue radici socialiste.

Dario Fo invece ha negato a lungo l’appartenenza alla Rsi...

Lui non finì a Coltano, riuscì ad eclissarsi prima. Nel 1974 sul quotidiano “Il Giorno” apparve un articolo in cui si sosteneva avesse trascorsi fascisti. Fo querelò. Il direttore Gaetano Afeltra pubblicò la smentita, e la cosa finì lì. Qualche anno dopo su un periodico che si chiamava il “Nord”, un giornaletto in provincia di Novara, viene fuori un articolo che dice: “Dario Fo dovrebbe ben guardarsi dal venire a recitare a Romagnano Sesia perché qualcuno potrebbe riconoscerlo come uno dei rastrellatori di ...”, e cita il rastrellamento dei repubblichini.

E Fo cosa fa?

Querela di nuovo, ma questa volta il giornale non rettifica. Si arriva al processo, e viene fuori che Fo era stato un volontario nel Battaglione Azzurro, i paracadutisti della Rsi. Il tribunale stabilisce che il battaglione ha partecipato al rastrellamento e che lui faceva parte di quel battaglione, sebbene non ci fossero prove che avesse partecipato a quella azione. Indro Montanelli sul “Giornale” scrisse: «Se Dario Fo avesse detto “avevo 17 anni”, era finita lì. La sua colpa non è ciò che ha fatto a 17 anni, è ciò che nega a 50».

Coltano viene chiuso già nell’autunno del 1945.

Si preparavano le elezioni dell’anno dopo e quindi serviva che tanti fascisti che sicuramente erano anticomunisti andassero a votare. Inoltre, appena si sparse la voce che i fascisti erano rinchiusi lì, cominciò ad arrivare un sacco di gente: mamme, sorelle, mogli. C’era questo campo con 32mila persone dentro e diecimila fuori. Una situazione ingestibile. Gli americani decisero di passare tutto al governo italiano, il quale lo chiuse nel giro di poche settimane, e in seguito, con l’amnistia Togliatti, mise il punto e a capo sui ragazzi di Salò.

 













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