la storia

Il "sogno d'acciaio" di Bruno Falck a Bolzano

Un capitalista duro ma con una visione sociale: un libro racconta la storia dell’uomo che ha fondato e guidato le Acciaierie per cinquant’anni


di Luca Fregona


BOLZANO. Bolzano e le Acciaierie, la fabbrica, la Zona. Bolzano città operaia. Bolzano e Bruno Falck, padre padrone, ma anche capitalista illuminato con una visione sociale. Una specie di Adriano Olivetti. C’è tanto da leggere nel nuovo libro di Ennio Marcelli “Le Acciaierie di Bolzano. L’arte di fabbricare acciaio” (Curcu & Genovese). Prima di tutto, un atto d’amore verso la fabbrica che portava il nome della città. Perché Ennio Marcelli alle “Acciaierie Bolzano” ha lavorato, 25 anni come tecnico dal 1967 al 1992. Poi, il racconto di un uomo, Bruno Falck, che ha guidato per mezzo secolo lo stabilimento, dalla fondazione nel 1935 fino al 1985, quando il timone è passato ai nipoti Giorgio e Alberto. «Un uomo che ha fatto tanto per Bolzano, e a cui Bolzano, stranamente, non ha dedicato nemmeno una strada». Un capitalista, Bruno. Un duro, certo. Uno che in 50 anni non ha mai chiuso un bilancio in rosso, ma che ha aveva anche chiaro il senso della “missione” sociale dell’imprenditore.

«Far crescere l’azienda insieme ai lavoratori, facendoli sentire un tutt’uno con la fabbrica e non braccia da mettere ai forni delle colate».

Nel libro, Marcelli ripercorre tutta la storia delle “Acciaierie Bolzano” fino alla cancellazione della società dal Registro delle imprese nel 2000, cinque anni dopo il passaggio della proprietà alla famiglia Amenduni. Oggi, infatti, si chiamano “Acciaierie Valbruna”.

L’INIZIO. Il 20 febbraio 1935 Mussolini convoca a Roma il Gotha dell’imprenditoria italiana: Guido Donegani (Montecatini), Vincenzo Lancia (Lancia), e Giorgio Enrico Falck (Acciaierie e ferriere Lombarde), il papà di Bruno. Il discorso è diretto: il duce cerca capitani d’industria per mettere in piedi fabbriche e stabilimenti a Bolzano. Promette incentivi fiscali, sgravi per i trasporti su ferrovia, energia idroelettrica (tanta) a costi bassi, finanziamenti per le opere di urbanizzazione e terreni quasi regalati. Premesso che dire “no” al duce non era consentito, l’offerta era più che buona. Giorgio Enrico Falck non ci pensa troppo e dice sì. Bolzano era strategicamente importante per la produzione dell’acciaio anche per la vicinanza alla Germania, il principale fornitore di rottami per la fusione. Il 21 marzo 1935 nasce la società per azioni “Acciaierie di Bolzano”. Amministratore unico il figlio Bruno, ingegnere, 33 anni, razza padrona, allevato a pane, conti e acciaio. Mandato in Usa a studiare i segreti del fordismo. La Zona industriale non esisteva. Solo campagna lavorata a frutta. Il regio decreto che dà al Comune la facoltà di espropriare i terreni, prevede anche la trattativa privata da parte delle aziende. Bruno Falck, insofferente al pantano burocratico fascista, va per conto suo. Contatta i contadini uno per uno, compra a prezzi giusti, e inizia a costruire il «telaio» della fabbrica su 140 mila metri quadrati. Capannoni, fognature, uffici, la mensa che dà da mangiare due volte al giorno. Tutto in via Razza (l’attuale via Volta), a ridosso della ferrovia e di Oltrisarco. Lì dove le “Acciaierie” sono ancora oggi. Falck cerca poi di ottenere altri terreni per allargare la fabbrica, ma deve fare i conti col “peso” e le richieste di altri imprenditori. «Lo stabilimento si trovò “circondato” da Lancia, Viberti e Montecatini, con ridottissimi se non nulli spazi di espansione».

La prima produzione, la più semplice, parte nel novembre 1937 con le lamette da barba, la “LAMA FALCO” (da Falck, che poi diventerà la mitica “LAMA BOLZANO”): due milioni di pezzi al mese e 350 operai, tra cui molte donne (nel 1940 le operaie saranno 150). Bruno però ha solo una cosa in testa: aprire prima possibile la fonderia. “Fare” acciaio. E ci riesce. Il 5 giugno del 1938, per la “colata inaugurale” arriva Umberto di Savoia. La produzione vera inizia un anno dopo, nel 1939, con l’avvio del Laminatoio. Acciaio speciale di altissima qualità che serve per costruire navi, auto, aerei, macchinari. E per l’industria bellica. La produzione è di 2.500 tonnellate all’anno, i dipendenti salgono a quota 650. Un esercito di operai, tecnici e amministrativi che arriva da diverse parti d’Italia, diventando una parte fondamentale della nascente comunità italiana legata a maglie strette all’espansione della Zona. «Per gli acciai speciali la fabbrica aveva bisogno di figure altamente qualificate. Gente che il mestiere lo sapesse già fare, e bene». Ingegneri, periti industriali, operai, capi reparto. Falck porta a Bolzano maestranze che conosce, di cui si fida, dagli stabilimenti di famiglia di Sesto San Giovanni, Dongo e Vorbano. A cui si aggiungono lavoratori a bassa specializzazione catapultati dalle campagne venete ai forni.

«Uno dei primi problemi che Falck deve (e vuole) risolvere è quello della casa. Gli operai vivevano in baracche, in condizioni penose». Falck compra terreni a Oltrisarco. Inizia a costruire, accanto al sottopasso per la Zona, due villette per i dirigenti e un palazzo per gli operai. «Stipula accordi con l’Istituto case popolari per la gestione diretta di alloggi da dare ai lavoratori». Gli appartamenti vengono affittati a canoni irrisori e Falck paga la differenza all’istituto.

LA GUERRA. L’8 settembre 1943, Bolzano e le sue fabbriche finiscono nel vortice dell’occupazione nazista. Acciaierie, Lancia, Viberti, Magnesio vengono messe sotto controllo diretto dai tedeschi. La produzione diventa funzionale all’industria bellica del Reich. Spesso di dice che in Alto Adige non ci sia stata una vera Resistenza per problemi oggettivi. Fuori Bolzano, i soldati tedeschi venivano visti come liberatori. Ma in città, in Zona, la musica era diversa. Le fabbriche sono state luoghi di Resistenza. «Alle Acciaierie sono state fatte centinaia di finte assunzioni per salvare vite: soldati italiani braccati dai nazisti e dalla Sod, internati del lager di via Resia, impiegati formalmente per l’industria bellica, e poi fatti scappare. E ancora: una rete di aiuti per i prigionieri del campo. Viveri, vestiti, messaggi da e per le famiglie, utilizzando i camion che andavano e venivano da Milano per portare i lingotti d’acciaio». Quando il 15 dicembre del 1943, le bombe americane cadono sullo stabilimento, Bruno Falck è lì, tra i suoi operai, nel rifugio sotto il deposito rottame. «Abbiamo reagito – racconterà in seguito -, non abbiamo mai fermato la produzione e pochi mesi dopo abbiamo aperto il secondo forno». Falck pensava già al dopoguerra,

IL DOPOGUERRA. I primi anni non sono facili, il mercato dell’acciaio stagna, ma la produzione riparte. Falck punta sulla qualità. Nel 1951 la produzione è già di 46 mila tonnellate l’anno. «Era il secondo stabilimento della Zona per numero di dipendenti dopo la Lancia. Le Acciaierie hanno avuto un’influenza enorme sullo sviluppo della città: la produzione era tra le più pregiate in Italia e nel mondo». Bolzano diventa una delle capitali dell’acciaio. Falck guarda all’estero, crea un dipartimento dedicato. Germania, America ma anche l’Europa orientale, l’Urss. Il 25% della produzione totale finisce oltre i confini nazionali. La filosofia è semplice: coprire con il mercato mondiale le flessioni cicliche di quello italiano. A metà degli anni ’50 esplode l’industria automobilistica. Falck è pronto: mette in linea i cuscinetti per le ruote e diventa il fornitore principale. Copre il 50% della richiesta nazionale. In pochi anni la produzione di via Volta copre il 10% di tutto l’acciaio italiano (una fetta di mercato che conserverà fino agli anni Ottanta).

«L’intuizione di Bruno Falck è stata quella di innovare sempre. Investiva in ricerca. Veniva tutto pensato e realizzato qui, a Bolzano»

LAMA BOLZANO. Falck capisce anche il potenziale dei loghi e della pubblicità. Con il boom economico il marchio “LAMA BOLZANO” diventa uno dei simboli dei nuovi consumi di massa, accanto al dentifricio, la vespa, e la brillantina. Il manifesto disegnato da Gino Boccasile della ragazza che suona una fisarmonica di lamette viene affisso in tutta Italia e in tutta Europa. Falck sponsorizza il Giro d’Italia. A Carosello il tenente Sheridan brandisce pistola e lametta. Il marchio diventa un volano che fa associare la città a belle ragazze e tipi fascinosi in tutto il pianeta. Un ritorno d’immagine pazzesco. Nel 1961, Falck, alla ricerca perenne di terreni, compra l’area del “Calzaturificio Rossi”, a due passi da Ponte Resia, e ci mette la produzione delle lamette. Ancora oggi, all’ingresso si legge “LAMA BOLZANO” a caratteri cubitali. Fedele alla sua missione sociale, Falck assorbe il personale della vecchia fabbrica, assume altre donne, che in fonderia non potevano lavorare, e apre il reparto “Erre”. Il reparto Finitura dell’acciaio.

LA VISIONE SOCIALE. Falck intanto non smette di investire su Bolzano. Continua a costruire case. A Oltrisarco, in via Resia, a Laives, a Maso della Pieve, in via Vicenza, in via Roma, in via Novacella. Case per operai. Case per dirigenti. Case per gli impiegati. Case “miste” per operai e impiegati. Arriva in totale a 400 alloggi che vengono dati in affitto a prezzi simbolici, e più tardi offerti a riscatto a metà del prezzo di mercato, pagati a microrate trattenute sullo stipendio. «Aveva una visione personale del rapporto tra datore di lavoro e maestranze. Cercava equilibrio, fiducia reciproca. Voleva che tutti s’impegnassero per un obiettivo comune. Molti dipendenti li aveva assunti lui. Conosceva le famiglie, le mogli, i figli. Si informava, chiedeva. Se qualcuno aveva bisogno di un medico per un problema grave, pagava le spese». Bruno Falck è l’azienda. È sposato ma non ha figli. In teoria abita a Milano, ma è sempre a Bolzano. Si sente bolzanino fino al midollo. Ha un piccolo appartamento sopra la portineria, in via Volta. Soffre di insonnia. Di notte, scende. Va in fonderia, tra i reparti, a parlare con gli operai. Come Olivetti, tra gli anni ’50 e ’60, promuove la sua visione di società in azienda: le colonie estive per i bambini, i gruppi sportivi, le borse di studio per i figli degli operai, il dopolavoro, la biblioteca, il gruppo donatori di sangue, il gruppo alpini, il gruppo anziani, persino una pista da sci “aziendale” con seggiovia sul Dantercepies... Finanzia gli istituti tecnici di via Cadorna, che devono servire a produrre i “quadri” di domani. Ai figli e alle mogli dei dipendenti viene sempre proposta l’assunzione. Dal lavoro al tempo libero, la fabbrica è il cemento che tiene insieme una comunità arrivata da diverse parti d’Italia e che ha poco in comune. Falck fonda anche una Cassa interna per coprire le spese in caso di malattia. Una fabbrica d’acciaio non è un campo di margherite. Ci sono le polveri che devastano gola e polmoni. Gli operai maneggiano amianto come fosse acqua fresca. Si ammalano di silicosi, tumori, patologie che si riconoscono ancora a fatica. Poi ci sono gli incidenti sul lavoro. Falck se ne rende conto. In un discorso del 1963 esorta il cda ad «impegnarsi al massimo sulla sicurezza e per la prevenzione delle malattie professionali».

Fa installare, primo a Bolzano, i depuratori d’aria nei capannoni inondati dalle scorie. I lavoratori delle Acciaierie apprezzano. Si sentono l’aristocrazia operaia, la crema.

Almeno fino al 1968.

GLI ANNI SETTANTA. Gli anni ’70 portano il conflitto all’interno dello stabilimento. Marcelli li ha vissuti e li racconta così: «Hanno segnato la fine di un’epoca, una frattura profonda». Il capitalismo paternalista di Falck non basta più.

«Falck si allinea alle posizioni intransigenti di Confindustria, i sindacati vanno giù duri. Contrattano su tutto. Lui risponde picche. La tensione è altissima». Falck, che ha digerito male lo Statuto dei lavoratori, lo scrive nelle relazioni di fine anno: «A causa degli scioperi abbiamo perso produzione e avuto gravi danni economici». Però, una cosa resta intatta. L’identificazione con la fabbrica. Quando si sciopera, si sciopera. Ma quando, finito lo sciopero, si torna alla macchina, si lavora. E stop. «Tutti avevamo la percezione chiara di far parte di un’industria nazionale, che contava. Importante, intendo. E ne eravamo orgogliosi».

L’operaio deluso con il cuore in fabbrica: in pensione dopo 43 anni di lavoro in Zona industriale  «Tutto è cambiato. Una volta c’era il Pci, adesso la Lega, Grillo e CasaPound»

LA POLITICA. I rapporti di Bruno Falck con la politica sono ridotti al “minimo necessario”. Nel 1967 in via Volta passa Andreotti. Poi qualche vescovo in visita pastorale. Ma niente di più. Se ha bisogno, alza il telefono e chiama direttamente il ministro di turno, quasi sempre un democristiano. Il primo Landeshauptmann a farsi vedere in stabilimento sarà Durnwalder ma solo nel 1996, quando la fabbrica è già degli Amenduni (coi terreni comprati dalla Provincia). “Kaiser Luis” - dopo decenni di indifferenza e poi di “guerriglia” Svp contro la Zona - si propone come l’unico in grado di salvare la “riserva operaia” sopravvissuta in città.

L’ADDIO. Nel 1985, 50 anni esatti dopo aver aperto lo stabilimento, Bruno lascia le redini ai nipoti Giorgio e Alberto. Muore nel 1993 a 91 anni. Giusto in tempo per non vedere il declino della fabbrica. Nel 1995, i nipoti passano la proprietà alla famiglia Amenduni, che - come detto - nel 2000 cancella la denominazione “Acciaierie Bolzano” e la sostituisce con “Acciaierie Valbruna”. I dipendenti scendono da 1.800 a 600. Ernesto Amenduni trasferisce la direzione, la sede e gli uffici tecnici a Vicenza. Bolzano non è più il cuore della fabbrica.













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