L'autunno, fra timori e speranze



L'autunno sarà caldo. Questo è certo. L’elenco dei problemi, purtroppo, è sconfinato. Al primo posto, segnato in rosso, c’è ora il conflitto in Afghanistan, che inevitabilmente ci sta già travolgendo: perché s’allarga e perché la pur straordinaria operazione di solidarietà è riuscita a dare risposte e accoglienza solo parziali. Al secondo posto - ma per diverse ragioni quasi a pari merito con l’Afghanistan - c’è la battaglia al Covid-19. Le idee sono ancora confuse sul vaccino obbligatorio e sul green pass. Dopo una pausa estiva che ha dato fiato all’economia e a un po’ tutti noi, alcuni territori stanno già cambiando colore. Il ritorno dei contagi non fa peraltro cambiare idea a chi pensa che la pandemia sia finita e che la si possa dunque affrontare senza lo scudo del vaccino.

Poi c’è il grande tema della riapertura della scuola e dell’università. Si ha giustamente solo voglia di ripartire, liberandosi per sempre di una didattica a distanza che ha reso insormontabili certe distanze. Ma ci sono ancora troppe incertezze, non solo sul fronte delle regole. Anche ministri e vari assessori, lungo lo stivale, procedono in ordine sparso, senza una bussola (che non può che essere nazionale) che indichi una via chiara e precisa.

Fra le emergenze che già fanno capolino c’è anche il ritorno in fabbrica, con l’incubo dei licenziamenti e con una crisi che nessun provvedimento potrà mai arginare fino in fondo: altro tema che divide il governo e che lascia il Paese appeso fra il gramsciano ottimismo della volontà di chi ce la mette tutta per non cedere e il leopardiano pessimismo cosmico di chi ha già abbassato per sempre la saracinesca dell’azienda e della speranza. Già, la speranza: non si costruisce nel laboratorio di palazzo Chigi o in qualche stanza ovale, ma è parte del clima di un Paese, della sua voglia di rimettersi in moto a prescindere da decisioni che arrivano dall’alto. L’aria è però pesante e s’insinua nei pensieri. Nelle prospettive. Nelle idee di un’Italia che è sempre più spezzata in due: da una parte chi è riuscito ad arricchirsi o comunque a risparmiare in tempo di virus; dall’altra chi non ce la fa più e chi - peggio ancora - pensa che si possa vivere di sussidi (ammesso che arrivino).

Sullo sfondo, accanto a mille altri problemi solo all’apparenza minori (o invisibili), ci sono gli ultimi mesi della presidenza Mattarella. In un momento come questo, il tandem Draghi-Mattarella è fondamentale: per la straordinaria credibilità internazionale che ha e per la sicurezza che trasmette alla nazione. Ma si sa come va l’Italia: rischia di saltare sul primo Durigon. Il sottosegretario che vedeva di buon occhio l’intitolazione al fratello di Mussolini di un luogo oggi dedicato Falcone e Borsellino ha per fortuna gettato la spugna, ma la sua vicenda - con balletti infiniti rispetto a una decisione dovuta e necessaria - dimostra quanto sia instabile la “grande” maggioranza che regge il Paese. Basta uno spiffero per rimettere in discussione tutto. E la consueta instabilità è l’unica cosa di cui non abbiamo davvero bisogno.

 













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